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 UN DIVERSO GENERE DI NASCITA - parte 1
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Inserito il - 01/10/2003 : 11:07:42  Mostra Profilo
UN DIVERSO GENERE DI NASCITA - parte 1

Buddhadasa Bhikkhu (1906 - 1993)
http://www.suanmokkh.org/ (in inglese)


«Tutto ciò che si crea e si distrugge non è che il riflesso momentaneo dei fenomeni»

Conversazione tenuta a Phattalung (Thailandia) il 16 luglio 1969.



La presente traduzione italiana, a cura di Mauro Barinci, è stata condotta sulla traduzione inglese dell'originale intitolata Another kind of birth, e non recante indicazione dell'editore né della data di pubblicazione (rilevabile per altro dall'indicazione dello stampatore: 1969).

Roma, novembre 1994



---------------------------



Un diverso genere di nascita


* La nascita è sofferenza perpetua.
La vera felicità consiste nell'eliminare la falsa idea «io».

* I problemi dell'umanità si riducono al problema della sofferenza, sia quella
inflitta da un altro oppure da se stessi.

* Linguaggio quotidiano/Linguaggio del Dhamma:
nel linguaggio quotidiano il termine nascita denota semplicemente la nascita
fisica, dal corpo di una madre;
nel linguaggio del Dhamma nascita si riferisce a un evento mentale che trae
origine dall'ignoranza, dalla brama e dall'attaccamento.

* Ogni volta che nasce l'idea errata «io», è nato l'«io»; suoi genitori sono
l'ignoranza e la brama.

* Il genere di nascita che per noi costituisce un problema è la nascita mentale.

* Se non si afferra bene questo punto non si riuscirà mai a capire nulla
dell'insegnamento del Buddha.



- - - - -



Nascita e sofferenza


L'argomento che discuteremo oggi è un argomento cruciale; ritengo che tutti dovrebbero rendersene conto. Si tratta di queste due affermazioni del Buddha:

«La nascita è sofferenza perpetua» (Dukkha jati punapunam)
«La vera felicità consiste nell'eliminare la falsa idea "io"» (Asmimanassa
vinayo etam ve paraman sukham).

I problemi dell'umanità si riducono al problema della sofferenza, sia quella
inflitta da un altro oppure da se stessi, attraverso le impurità della mente. Questo è il problema fondamentale per ogni essere umano, perché nessuno vuole soffrire. Nelle due affermazioni citate il Buddha stabilisce una uguaglianza fra sofferenza e nascita: «La nascita è sofferenza perpetua»; e parimenti considera uguali la felicità e il completo abbandono della falsa idea «io», «me stesso», «io sono», «io esisto».

L'affermazione che la nascita è la causa della sofferenza è complessa, in quanto ha varî livelli di significato. La principale difficoltà è nell'interpretazione della parola «nascita». Noi per lo più non capiamo a cosa il termine «nascita» si riferisce, e probabilmente prendiamo questa parola nel suo significato comune, di nascita fisica, dal corpo di una madre. Il Buddha ha insegnato che la nascita è sofferenza perpetua. Forse che nel dire questo si riferiva alla nascita fisica? Pensateci su. Se avesse inteso riferirsi alla nascita fisica, verosimilmente non avrebbe detto poi «La vera felicità consiste nell'eliminare la falsa idea "io"», perché questa affermazione indica chiaramente che ciò che causa la sofferenza è la falsa idea «io». Quando l'idea «io» è stata completamente estirpata, quella è vera felicità. Perciò la sofferenza consiste effettivamente nell'idea erronea «io», «io sono», «io ho». Il Buddha ha detto: «La nascita è sofferenza perpetua».

Che cosa si intende qui con il termine «nascita»? E' chiaro che «nascita» non si riferisce a niente altro che all'originarsi dell'idea «io» (asmimana). La parola «nascita» si riferisce all'originarsi dell'idea errata «io», «me stesso». Non si riferisce alla nascita fisica, come comunemente si ritiene. La supposizione, erronea, che questa parola «nascita» si riferisca alla nascita fisica è un ostacolo sostanziale alla comprensione dell'insegnamento del Buddha.



Linguaggio quotidiano e linguaggio dhammico


Bisogna avere ben presente che in generale una parola può avere diversi significati in relazione al contesto. Si possono distinguere principalmente due casi:
1. il linguaggio che si riferisce alle cose fisiche, che si parla comunemente;
2. il linguaggio che si riferisce alle cose della mente, linguaggio psicologico, linguaggio del Dhamma, che è usato da chi conosce il Dhamma (Verità superiore, insegnamento del Buddha). Il primo tipo può essere chiamato «linguaggio quotidiano», il linguaggio parlato dalla gente in genere; il secondo può essere chiamato «linguaggio del Dhamma», il linguaggio usato dalle persone che conoscono il Dhamma.

Una persona comunemente si esprime come ha imparato a farlo, e quando usa la parola «nascita» intende la nascita fisica, dal corpo di una madre; invece nel linguaggio del Dhamma, il linguaggio usato da chi ha conoscenza del Dhamma, «nascita» si riferisce all'originarsi dell'idea «io sono». Se a un certo momento si origina nella mente la falsa idea «io sono», è proprio in quel momento che l'«io» è nato. Quando questa falsa idea viene meno, non c'è più alcun «io», momentaneamente l'«io» ha cessato di esistere. Quando l'idea «io» di nuovo sorge nella mente, l'«io» è rinato.

Questo è il significato della parola «nascita» nel linguaggio del Dhamma. Non si riferisce alla nascita fisica, da una madre di carne e sangue, ma alla nascita mentale, da una «madre» mentale, che è la brama, l'ignoranza, l'attaccamento (tanha, avijja, upadana). Si potrebbero considerare come madre la brama e come padre l'ignoranza; in ogni caso il risultato è la nascita dell'«io», l'originarsi della falsa idea «io». Il padre e la madre dell'illusoria credenza «io» sono l'ignoranza e la brama o attaccamento. Ignoranza, illusione, errata comprensione, fanno nascere l'idea «io», «me». Ed è questo genere di nascita che è sofferenza perpetua. La nascita fisica non è un problema: una volta nata da sua madre, una persona non deve più aver nulla a che vedere con la nascita. Nascere da una madre è cosa di pochi minuti, e nessuno si trova mai a dover ripetere questa esperienza.

Ora, noi sentiamo parlare di rinascita, di nascere ancora e ancora, e della sofferenza che inevitabilmente vi si accompagna. Ma cos'è questa rinascita? Che cos'è che rinasce?
La nascita alla quale ci riferiamo è un evento mentale, un qualcosa che ha luogo nella mente, nella parte non fisica del nostro essere. Questo è «nascita» nel linguaggio del Dhamma. «Nascita» nel linguaggio quotidiano è nascita da una madre; «nascita» nel linguaggio del Dhamma è nascita dall'ignoranza, dalla brama, dall'attaccamento, è l'originarsi della falsa nozione di «io» e «mio».

Questi sono i due significati della parola «nascita». Si tratta di un punto importante, che semplicemente deve essere capito. Chi non lo afferra bene non riuscirà mai a capire qualcosa dell'insegnamento del Buddha. Perciò fatelo oggetto di un interesse particolare. Ci sono queste due specie di linguaggî, questi due livelli di significato: il linguaggio quotidiano, con cui ci si riferisce alle cose fisiche, e il linguaggio del Dhamma, con cui ci si riferisce alle cose della mente, e che è usato da chi ha conoscenza. Facciamo qualche esempio per chiarire questo punto.

Consideriamo il termine «cammino». Di solito nell'usare questa parola ci riferiamo a una strada o via lungo la quale possono muoversi veicoli, uomini e animali. Però la parola «cammino» può riferirsi anche al Nobile Ottuplice Sentiero, il cammino della pratica insegnata dal Buddha - retta comprensione, retto pensiero, retta parola, retta azione, retto modo di guadagnarsi da vivere, retto sforzo, retta consapevolezza, retta concentrazione - che conduce al nibbana. Nel linguaggio comune «cammino» si riferisce a una via fisica; nel linguaggio del Dhamma si riferisce alla ottuplice via di retta pratica conosciuta come il Nobile Ottuplice Sentiero. Questi sono i due significati della parola «cammino».

Analogamente per il termine «nibbana» (nirvana). Nel linguaggio quotidiano questa parola si riferisce al raffreddarsi di un oggetto caldo. Per esempio, quando i carboni accesi si sono raffreddati, si dice (in pali o in sanscrito) che si sono «nibbanati»; quando del cibo caldo in una pentola o su un piatto diviene freddo si è «nibbanato». Questo è il linguaggio quotidiano. Nel linguaggio del Dhamma «nibbana» si riferisce a quella quiete che deriva dall'eliminare le impurità della mente. In ogni momento in cui vi è libertà dalle impurità della mente, è in quel momento che c'è quiete, un nibbana momentaneo. Pertanto «nibbana» o «quiete» ha due significati, a seconda che chi parla stia usando il linguaggio quotidiano o quello del Dhamma.

Un'altra parola importante è «vuoto» (suññata, sunyata). Nel linguaggio quotidiano, il linguaggio delle cose fisiche, «vuoto» significa assenza totale di qualsiasi oggetto; nel linguaggio del Dhamma significa assenza dell'idea «io», «mio».
Quando la mente non è occupata nell'afferrare un qualche cosa o nel tenerglisi stretta in termini di «io» o «mio», è in uno stato di «vuoto». La parola «vuoto» ha questi due livelli di significato, l'uno riferito alle cose fisiche, l'altro a quelle della mente, uno nel linguaggio quotidiano, l'altro nel linguaggio del Dhamma. Il vuoto fisico è l'assenza di un qualsiasi oggetto, vacuità. Il vuoto mentale è lo stato nel quale tutte le cose del mondo fisico sono presenti come di solito, ma nessuna di loro è oggetto di acquisizione, di attaccamento in termini di «mio». Una mente in questa condizione si dice «vuota».
Quando la mente arriva a vedere come sia vano il desiderare le cose, vivere in funzione di esse, acquisirle, tenervisi stretti, allora è vuota di desiderio, di voler essere, di acquisività, di attaccamento. La mente è allora una mente vuota, sgombra, ma non nel senso di essere vuota di contenuti. Tutti gli oggetti vi sono presenti come al solito, e i processi del pensiero si svolgono anch'essi come al solito, senza però che vi siano sottesi l'acquisività e l'attaccamento all'idea di «io» e «mio». La mente è priva di acquisività e attaccamento, e perciò è detta una mente vuota, o sgombra.

E' detto nei testi: «Una mente si dice vuota quando è vuota di desiderio, avversione, illusione (raga, dosa, moha)». Anche il mondo è descritto come vuoto, poiché è vuoto di qualsiasi cosa che potrebbe essere identificata come «io» o «mio». E' in questo senso che si parla del mondo come vuoto. «Vuoto» nel linguaggio del Dhamma non significa vuoto fisicamente, privo di contenuti.
Vedete la confusione e i fraintendimenti che possono nascere se queste parole sono prese nel loro significato quotidiano. Se non comprendiamo il linguaggio del Dhamma, non potermo mai comprendere il Dhamma; e il termine del linguaggio del Dhamma più importante da capire è quello di «nascita».

Il genere di nascita che per noi costituisce un problema è la nascita mentale, il nascere o sorgere della falsa nozione di «io». Una volta sorta l'idea «io», inevitabilmente segue l'idea «io sono così e così». Per esempio, «io sono un uomo», «io sono una creatura vivente», «io sono un uomo buono», «io non sono un uomo buono», o qualche cos'altro del genere. E una volta che è sorta l'idea «io sono così e così», la segue l'idea di confronto: «io sono migliore di Tizio», «io sono inferiore a Tizio», «io sono come Tizio».
Queste idee sono tutte di un tipo; tutte rientrano nella falsa nozione «io sono», «io esisto». E' a questo che il termine «nascita» si riferisce. Perciò in un giorno solo possiamo nascere molte volte, dozzine e dozzine di volte. Anche in un'ora possiamo nascere e nascere, tante volte. Ogni volta che vengono in essere l'idea «io» e l'idea «io sono così e così», quella è una nascita. Quando un'idea del genere non sorge, non c'è nascita, e questa assenza di nascita è uno stato di quiete.
Questo è un principio da mettere bene a fuoco: ogni volta che nasce l'idea «io», «mio», in quel momento viene in essere nella mente il ciclo del samsara, e ci sono sofferenza, struggimento, agitazione; e ogni volta che si è liberi da questo genere di imperfezioni c'è il nibbana, il nibbana del tipo chiamato tadanga-nibbana o vikkhambhana-nibbana.



Il nibbana momentaneo


Il tadanga-nibbana è menzionato nell'Anguttara-Nikaya. E' uno stato che si realizza momentaneamente, quando si dà il caso che le condizioni esterne sono tali che non sorge alcuna idea di «io» o «mio». Il tadanga-nibbana è una cessazione momentanea dell'idea «io», «mio», dovuta a circostanze esterne favorevoli. A un livello superiore, se ci impegniamo in una qualche forma di pratica del Dhamma, in particolare se sviluppiamo la concentrazione così che l'idea «io», «mio» non può sorgere, quella estinzione di «io», «mio» è chiamata vikkhambhana-nibbana. E infine, quando riusciamo a realizzare l'eliminazione completa di tutte le impurità, quello è nibbana pieno, nibbana totale.
Limitiamo adesso la nostra discussione alla vita quotidiana della gente. Ci si deve rendere conto che ogni volta che c'è l'idea «io», «mio», ci sono nascita, sofferenza, il ciclo del samsara. L'«io» nasce, dura un momento, quindi cessa; nasce di nuovo, dura un momento, e nuovamente cessa - e questo è il motivo per il quale ci si riferisce a questo processo come il ciclo del samsara. E' sofferenza perché c'è nascita dell'«io». Se in qualche momento succede che le condizioni sono favorevoli, cosicché non nasce l'idea «io», allora c'è pace - ed è chiamata tadanga-nibbana, nibbana momentaneo, un assaggio di nibbana, un che di nibbana, pace, quiete.

Il significato di «nibbana» si fa più chiaro quando consideriamo come la parola è usata nell'Anguttara Nikaya. In quel testo troviamo che di oggetti caldi divenuti freddi si dice che si sono «nibbanati». Di animali che sono stati domati, resi docili e inoffensivi si dice che sono stati «nibbanati». Come può divenire «quieto» un essere umano? La questione è complicata dal fatto che l'attuale conoscenza e comprensione della vita l'uomo non le ha acquisite tutte insieme; queste si sono sviluppate gradualmente, in un lungo periodo.
Parecchio tempo prima del Buddha, la gente riteneva che il nibbana fosse nel piacere sensuale, perché chi si procura tutti i piaceri sensuali che vuole, effettivamente prova una certa quiete. Una doccia in un giorno caldo dà un certo rilassamento; ritirarsi in un posto silenzioso fa provare una quiete di genere diverso, in termini di appagamento, di assenza di motivi di turbamento. Perciò anzitutto la gente era interessata a quel genere di nibbana che consiste in un'abbondanza di piacere sensuale.

In seguito, uomini di saggezza maggiore si resero conto di come ciò fosse insoddisfacente. Videro come il piacere sensuale fosse in gran parte illusorio (maya) e cercarono la quiete nella tranquillità mentale della concentrazione (jhana). I jhana sono stati di autentica quiete della mente, e questo era il genere di nibbana al quale la gente era interessata nel periodo immediatamente precedente l'illuminazione del Buddha. I guru insegnavano che il nibbana coincideva con lo stato di concentrazione mentale più raffinato.
L'ultimo guru del Buddha, Udakatapasa Ramaputra, gli insegnò che raggiungere il «jhana di né percezione né non percezione» (n'eva sañña n'asaññayatana) era raggiungere la completa cessazione della sofferenza. Il Buddha però non accolse questo insegnamento; non ritenne che si trattasse del nibbana autentico. Andò avanti da solo e analizzò a fondo la questione, finché non raggiunse quel nibbana che è la totale eliminazione di ogni specie di brama e di attaccamento.

Come lui stesso in seguito insegnò: «La vera felicità consiste nell'estirpare la falsa idea "io"». Quando le impurità sono state totalmente eliminate, quello è il nibbana. Se le impurità sono assenti soltanto momentaneamente, è un nibbana momentaneo. Di qui l'insegnamento, che abbiamo già discusso, del tadanga-nibbana e del vikkhambhana-nibbana. Questi termini denotano una condizione di assenza di impurità.
Ora, se esaminiamo noi stessi, scopriamo che non siamo sempre dominati dalle impurità; ci sono momenti in cui ne siamo liberi. Se non fosse così, in breve le impurità ci farebbero impazzire e moriremmo, non rimarrebbe molta gente al mondo. E' grazie a questi brevi periodi in cui siamo liberi dalle impurità che ci affliggono che non soffriamo tutti di turbe nervose e diveniamo pazzi o moriamo. Apprezziamo la Natura per questo, e sentiamoci grati perché ci ha fatti in modo da avere ogni giorno un periodo sufficiente di sollievo dalle impurità. C'è il tempo in cui dormiamo, e ci sono periodi in cui la mente è chiara, quieta, in pace.
Una persona che riesce ad agire secondo il disegno della Natura può evitare disturbi nervosi e psicologici; chi non ce la fa è destinato ad avere sempre più turbe nervose, fino alla malattia mentale o anche alla morte. Siamo grati per il nibbana momentaneo, quel genere di nibbana effimero che si dà quando le condizioni sono favorevoli. Per un breve momento siamo liberi dalla brama, dalla presunzione, e dalle false idee, in particolare da quella di «io» e «mio». La mente è vuota, libera, per il tempo sufficiente per riposare un po' o per dormire, e così rimane sana.



La cosapevolezza


In passato questa condizione era più comune di quanto non lo sia ora. L'uomo moderno, con l'incessante cambiamento delle sue conoscenze e del suo comportamento, è più soggetto a risentire delle impurità rispetto all'uomo del passato. Perciò l'uomo moderno va più soggetto alle infermità nervose e psicologiche; è una condizione disgraziata. Quanta più conoscenza scientifica ha, tanto maggiore è la sua vulnerabilità alla malattia mentale! Il numero delle persone che hanno problemi psichici cresce così rapidamente da mettere in crisi gli ospedali.
La causa è semplice, e una: la gente non sa far riposare la mente. E' troppo ambiziosa. Fin dalla più tenera infanzia le è stato insegnato ad essere ambiziosa. Proprio nell'infanzia contrae disturbi nervosi, e al completamento degli studî ha già problemi mentali. Questo deriva dal non interessarsi dell'insegnamento del Buddha per il quale la nascita dell'idea di «io» e «mio» è il massimo della sofferenza.

Ora andiamo avanti con la questione «nascita». Indipendentemente dal genere di esistenza nel quale si è nati, nascita non è altro che sofferenza; il termine «nascita» qui denota attaccamento non accompagnato da consapevolezza. Questo è un punto importante, che va compreso bene: se nella mente di una pesona sorge l'idea «io sono così e così», e la persona è consapevole del sorgere di questa idea, quel sorgere non è una nascita nel senso che la parola ha nel linguaggio del Dhamma. Se invece la persona illusoriamente si identifica con l'idea, quella è una nascita.
Per questo il Buddha richiama l'importanza di una continua presenza mentale. Se sappiamo chi siamo, ciò che dobbiamo fare, e lo facciamo consapevolmente, non c'è sofferenza, perché non c'è nascita di «io» o «mio». Ogni volta che vengono in essere illusioni, sconsideratezza, negligenza, sorgono il desiderio e l'attaccamento alla falsa idea «io», «mio», «io sono Tizio», «io sono così e così», ... e questa è nascita.

Nascita è sofferenza, e il genere di sofferenza dipende dal genere di nascita. La nascita come madre comporta il soffrire come madre, la nascita come padre comporta il sofferire come padre. Ad esempio, se in una persona sorge l'idea illusoria di essere una madre, e in conseguenza di volere questo, quello, quell'altro ancora, questo è il soffrire come madre. Lo stesso per un padre. Se si identifica con l'idea di essere un padre, che vuole questo, che vuole quello, che è acquisitivo, che vuole tenersi le cose bene strette, questo è il soffrire come padre.
Ma se uno è consapevole, non ci sono questa distorsione e confusione; semplicemente, egli sa, con piena chiarezza, cosa deve fare come padre o come madre, e lo fa con mente calma e ferma, senza attaccamento all'idea «io sono questo», «io sono quello». Così è libero dalla sofferenza, e in questa condizione è effettivamente in grado di far crescere i suoi figli in modo appropriato e con il massimo vantaggio per loro. La nascita come madre comporta il soffrire come madre; la nascita come padre comporta il soffrire come padre; la nascita come milionario comporta il soffrire come milionario; la nascita come mendicante comporta il soffrire come mendicante. Quello che si intende con quanto si è detto può essere illustrato dal confronto seguente.



Identificazione con l'«io-mio»


Pensiamo dapprima a un milionario, dominato da illusioni, da desiderio, da attaccamento, che è aggrappato all'idea «io sono un milionario». Questa idea è di per se stessa sofferenza; qualsiasi cosa sia fatta o detta da quell'uomo, lo è sotto l'influsso di queste impurità, e diviene pertanto ragione di ulteriore sofferenza. Anche dopo essere andato a letto, egli indugia nell'idea di essere un milionario, e non riesce a dormire. Così la nascita come milionario comporta la sofferenza come milionario.

Pensiamo adesso a un mendicante; nella sua mente occupano molto spazio le sue disgrazie, la sua povertà, i suoi patimenti, le sue difficoltà - è il soffrire di un mendicante. Ora, se in un qualche momento uno dei due uomini fosse libero da queste idee, in quel momento sarebbe libero dalla sofferenza; il milionario sarebbe libero dalla sofferenza come milionario, il mendicante sarebbe libero dalla sofferenza come mendicante. Succede così che a volte si vede un mendicante che canta spensierato, perché in quel momento non nasce come mendicante, non si identifica con l'essere un mendicante o con una qualsiasi difficoltà. Per un momento lo ha dimenticato, non è più nato come mendicante, è nato come uno che canta, o che suona.
Pensiamo a un misero barcaiolo. Se si fissa nell'idea di essere povero, e rema sul suo traghetto con un senso di insofferenza e di autocommiserazione, ecco che soffre, proprio come se fosse finito dritto all'inferno. Però, se invece di dare tanto spazio a queste idee riflettesse che sta facendo quello che deve fare, che il lavoro è la sorte degli esseri umani, e facesse il suo lavoro con consapevolezza e con mente tranquilla e ferma, si troverebbe a cantare mentre rema sul traghetto.

Analizzate minutamente, con cura, in modo netto questa domanda: a che cosa ci si riferiva con il termine «nascita» in quello che si è detto? Se in un dato momento un milionario «nasce» come milionario, in quel momento prova la sofferenza di un milionario; se un mendicante nasce come mendicante, prova la sofferenza di un mendicante. Però, se uno non si identifica nel modo che si è detto, non «nasce», e perciò è libero dalla sofferenza, sia egli un milionario, un mendicante, un barcaiolo, o quel che sia.
Al giorno d'oggi non siamo interessati a questo genere di questioni. Ci facciamo sopraffare da illusioni, da brama, da attaccamento. Nasciamo come questo, quello, quell'altro, non so quante volte al giorno. Ogni genere di nascita, senza eccezioni, è sofferenza, come ha detto il Buddha. L'unico modo di essere liberi dalla sofferenza è quello di essere liberi dal nascere. Perciò bisogna essere accurati, tenere sempre la mente sveglia e penetrante, non disturbata e confusa da «io» e «mio». Allora si sarà liberi dalla sofferenza. Che si sia un agricoltore, o un commerciante, o un soldato, o un impiegato statale, o qualsiasi altra cosa, anche un dio in cielo, si sarà liberi dalla sofferenza.

Non appena c'è l'idea «io», c'è sofferenza. Afferrate questo importante principio, e siete in condizione di comprendere il punto essenziale del Buddhismo, e di ottenere beneficio dal Buddhismo; di trarre pienamente profitto dall'essere nati esseri umani e dall'aver incontrato il Buddhismo. Se non lo afferrate, non ne otterrete alcun beneficio, anche se siete un buddhista; sarete un buddhista soltanto di nome, soltanto in senso anagrafico; dovrete starvene giù a piangere come tutti quelli che non sono buddhisti; continuerete a provare sofferenza come chi non è buddhista.
Per essere autenticamente buddhisti dobbiamo praticare l'autentico insegnamento del Buddha, in particolare il precetto: «Non immedesimatevi nell'"io" o "mio"; agite con chiara consapevolezza e non ci sarà sofferenza». Allora potrete fare il vostro lavoro bene, e quel lavoro sarà un piacere. Quando la mente è presa nell'«io» e «mio», ogni lavoro diviene pesante, opprimente in ogni senso. Ma se la mente non si tiene stretta all'idea «io», «mio», se è sveglia, ogni lavoro, anche pesante o umile, è piacevole.



Il samsara


Questa è una verità profonda, riposta, che va compresa. La sua essenza è in una parola: «nascita». Nascita è sofferenza: ogni volta che riusciamo a smettere di nascere, siamo liberi dalla sofferenza. Quante volte in un giorno una persona esperimenta la nascita, tante volte in quel giorno dovrà provare sofferenza; se non sperimenta affatto la nascita, non dovrà soffrire affatto.
Così la pratica diretta del Dhamma, il nucleo dell'insegnamento del Buddha, consiste nel mantenere una vigilanza attenta sulla mente, affinché questa non dia luogo alla condizione chiamata il ciclo del samsara, e sia sempre nello stato chiamato nibbana. Si deve essere attenti, e custodire la mente in ogni momento, così che vi sia un costante stato di quiete, e non rimanga alcuna possibilità per il verificarsi del samsara.

Alla mente diverrà familiare giorno e notte lo stato di nibbana; questo stato può divenire permanente e completo. Un nibbana momentaneo lo abbiamo già, si verifica quando le circostanze sono favorevoli; è un assaggio, un anticipo di nibbana. Conservatelo con cura; non lasciate nessuno spazio aperto al samsara, all'idea di «io», di «mio». Non fate nascere l'idea «io». Siate vigili, consapevoli, sviluppate la capacità di penetrare nel profondo. Qualsiasi cosa facciate, giorno per giorno, ora per ora, minuto per minuto, fatela consapevolmente. Non fatevi prendere dall'«io» e dal «mio». Allora il samsara non può nascere; la mente rimane nel nibbana finché ha piena familiarità con esso, e non può tornare indietro; questo è il nibbana pieno, o completo.

Fin dall'infanzia viviamo in un modo che favorisce la nascita dell'«io» e del «mio», e siamo abituati al ciclo del samsara. E' una condizione difficile da infrangere. E' divenuta parte di noi stessi, e per questo a volte se ne parla in termini di «legami» (samyojana) o di «disposizioni latenti» (anusaya), qualcosa che è intimamente connesso alla nostra natura. Questi termini si riferiscono alla consuetudine di far nascere l'«io», il «mio», di dar corpo al senso dell'«io», del «mio». In una forma si chiama avidità (lobha); in un'altra forma è chiamata avversione (krodha); in un'altra ancora illusione (moha). Qualsiasi forma prenda, si tratta semplicemente dell'idea di «io», «mio»; autoriferimento. Quando l'«io» vuole ottenere qualcosa, c'è avidità; quando non lo ottiene, c'è avversione; quando esita e non sa che cosa vuole, c'è confusione, fissazione su speranze e eventualità.
Avidità, avversione e fissazione di qualsiasi genere sono semplicemente forme dell'idea «io», e quando sono presenti nella mente è il samsara perenne, la totale assenza del nibbana. In queste condizioni una persona non vive a lungo. Però viene in aiuto la Natura: come abbiamo visto all'inizio, il processo a volte si arresta da solo, per naturale stanchezza, e ci si addormenta, o si ha un po' di respiro in qualche altra forma; la situazione migliora, si fa più sopportabile, e si evita la morte.


continua...


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