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Inserito il - 03/10/2013 : 10:59:01
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Tutto è vita
di Umberto Cinquegrana
Tutto è vita, e tutto è lezione di vita. E’ vita l’azione, ma lo è anche il riposo; lo scalpello, che colpisce il marmo e lo scolpisce, trasformandolo in un’opera d’arte, è vita quanto lo è la rozza zappa del contadino che rivolta la terra, o che appoggia il letame accanto alle radici, nutrimento alle piante.
E’ vita il sole di un tramonto rosso, che commuove l’animo del poeta e dona pace, ma è vita anche il sole del deserto, inesorabile e crudele verso il beduino assetato.
E’ vita il santo, che intorno distribuisce luce e calore, amore e carità, ma è vita anche il crudele persecutore, che la vita la toglie: tutto quello che è esistente è vita, anche se, tante volte, porta la maschera della morte. E’ vita la roccia tanto quanto lo è il pensiero dell’uomo. Le lettere dell’alfabeto della vita sono tutte sempre vita, sia che si dispongano a formare l’invocazione o Dio!, o che formino l’opposto di essa, odio!.
La vita è vita sia quando è una danza gioiosa, o che sia un canto funebre, carico di lacrime e di dolore: la vita è vita, ma anche la morte è vita. E’ vita la delusione, così come lo sono la gloria, la buona salute e la malattia, la gioia e il dolore: anche il cancro è vita, mentre genera sofferenza e lacrime. Sono vita gli uccelli del cielo, i pesci del mare, i viventi tutti della terra, i cieli che narrano la gloria di Dio, le stalattiti e le stalagmiti, ma anche tutte le cavità buie della terra, abitate dai soli pipistrelli. E’ vita la ricchezza dei ricchi, è vita la povertà dei poveri.
- L’uomo è cieco -
L’uomo è, fondamentalmente, cieco. Egli ha una vista ridottissima anche sul piano fisico, tant’è vero che, senza l’ausilio di strumenti scientifici, non è capace di vedere le singole cellule che costituiscono il suo stesso organismo, e tantomeno le molecole e gli atomi. La luce di una sola stella - il nostro sole - è sufficiente per accecare talmente l’uomo, da renderlo incapace di vedere le altre stelle durante il giorno. Di sera, poi, diciamo di vedere le stelle del cielo, ma, delle stelle esistenti nell’universo – l’astronomia ne ha contate, fino ad ora, più di duecento miliardi di miliardi! – l’occhio nudo riesce a vederne solo un tremila per ciascun emisfero, se il cielo è sereno e la vista è buona.
Se guardiamo una montagna, ne vediamo e ammiriamo a malapena la forma più o meno geometrica, ci colpisce il colore dominante del suo mantello boschivo, e qualche altro particolare macroscopico; ma nulla vediamo del sottobosco, della miriade di animaletti che popolano la montagna, che lottano quotidianamente per la sopravvivenza, urlano, cantano, tacciono, corrono, dormono, nascono, muoiono. Il massimo che sappiamo dire è quant’è alto questo monte, quant’è bello e maestoso, o altre cose del genere.
Altrettanto dicasi di quando davanti a noi si stende il mare: ne vediamo solo la massa enorme d’acqua, e qualche pesciolino che di tanto in tanto guizza sopra le onde, ma ci sfugge l’immensa meraviglia degli abitanti delle acque profonde. Per noi che guardiamo la superficie, il mare non è il grande acquario che è, né è il regno palpitante del dio Nettuno; e, se anche ci immergessimo nelle sue profondità, non riusciremmo ad ammirare che soltanto un po’ di briciole del tutto.
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Noi siamo ciechi anche nei confronti del nostro stesso io: noi non vediamo la nostra anima, noi non conosciamo il nostro essere interiore. Poche volte vediamo i nostri sogni: che poi non si capisce bene come possiamo vedere noi stessi nei sogni, dal momento che stiamo dentro ai sogni mentre sogniamo. I sogni sono tantissimi, ma vengono tutti azzerati dall’oblio del risveglio, al mattino. Noi non vediamo i sentimenti altrui, nel mentre che ci affanna il tentativo di cogliere i nostri. E i pensieri, anche solo i nostri, chi li può vedere? Essi corrono veloci, e sono mutevoli; gli uni cancellano gli altri, sicchè, per immortalarne qualcuno, dobbiamo ricorrere al diario delle nostre memorie. Ma, pure questo fatto è relativo, perché nella memoria scritta fissiamo un pensiero presente che ripercorre un pensiero che già non è più.
Le onde elettromagnetiche noi non le vediamo, eppure in esse siamo immersi, esse sono attorno a noi e trasportano per il mondo tanti momenti della vita dell’uomo. Noi non vediamo i raggi gamma, né vediamo i raggi x; non sono visibili per noi i raggi infrarossi, né quelli ultravioletti, per cui sono invisibili a noi e inesistenti per i nostri occhi gli oggetti che riflettono queste onde. La parte visibile dell’universo fisico è meno dell’uno per cento: più del 99% del cosmo fisico nel quale siamo esistenti è invisibile per noi.
Ma allora, quando diciamo ‘io vedo il mondo’, che cosa è quel che noi diciamo di vedere? In realtà noi vediamo la superficie delle cose, cioè la facies quae est super, e che, nel fondo, nasconde l’essere vero, l’essere intimo, l’essere interiore delle cose, quello che è la sub-stantia, cioè il complesso di tutto ciò che stat sub, al disotto della superficie, nell’anima delle cose. Quando gli altri vedono la mia persona, quando io vedo la persona degli altri, io vedo, e gli altri vedono, la persona secondo la sua etimologia latina: noi vediamo, cioè, la maschera di noi stessi, mentre ci sfugge quasi totalmente la profondità dell’essere che è dietro la maschera-persona.
- L’uomo è sordo -
Non se la cava meglio il nostro udito. Quanti di noi sono capaci di udire la favola meravigliosa che il creato ci racconta con dolce prepotenza e senza sosta, come ci ricorda il cantore di Dio: ‘coeli narrant gloriam Dei’, i cieli, cioè, narrano la gloria di Dio? ‘Ho suonato il flauto sulla piazza del mercato, ma nessuno ha voluto danzare’, lamenta il salmista, deluso; probabilmente, nessuno ha corrisposto all’invito, perché nessuno ha realmente udito il suono del flauto. La voce del profeta che grida ‘raddrizzate le vie, dirigetele verso il Signore’ è una vox clamantis in deserto, è la voce di uno che grida nel deserto, è un appello accorato rivolto a sordi.
Noi non riusciamo a sentire neppure la voce del nostro essere interiore, del nostro spirito, che giace tra le pieghe più profonde del nostro io, anche quando egli urla talvolta il grido ‘Abbà, Padre’. E quante volte riusciamo ad udire la voce della nostra coscienza, quella voce che sola – unitamente alla voce del cielo stellato – commuoveva profondamente l’animo sensibile di Immanuel Kant?
Il genio musicale è capace di ascoltare le armonie divine e le traduce in note musicali, il poeta sente parlare la natura e ne trasmette i messaggi in versi, l’artista coglie l’eternità delle immagini in fuga; Michelangelo ha udito, in uno dei massi marmorei di Carrara, il gemito de la Pietà mentre chiedeva di essere portata alla luce del sole, il filosofo raccoglie i brandelli di assoluto, che, staccatisi dalla verità universale, vagano qua e là nelle profondità del pensiero, e prova a rimetterli assieme.
Solo il mistico riesce a sentire la voce degli angeli che parlano di Dio, e l’armonia dei cieli, di quegli stessi cieli nei quali siamo immersi tutti noi, e che anche a noi parlano di continuo.
Le onde radio, quelle della tivù e le onde della telefonia, lambiscono di continuo i nostri orecchi, cariche di messaggi e di immagini di svariatissima natura, ma noi non le udiamo e non le vediamo senza la mediazione delle antenne e dei transduttori. Tutti gli atomi del cosmo fisico vibrano, i loro elettroni corrono come impazziti attorno ai nuclei, tutto è movimento, un grande immenso maestoso movimento, e incessante: chi è in grado di ascoltare l’armonia universale che ne deriva?
La terra ha il suo respiro di ogni sei ore, che si esprime attraverso il ritmo alternato delle maree: è il suo, un immenso respiro. Ma neppure i marinai che navigano in alto mare riescono a sentirlo. Chi, poi, sarà mai in grado di udire il respiro di Brahma, quello che gli scienziati descrivono in termini di espansioni e contrazioni ritmiche dell’universo, se non siamo capaci nemmeno di udire il nostro stesso respiro, che ci accompagna per tutta la vita, e di questa segna l’inizio e la fine.
Cellule nascono, cellule muoiono, cellule vivono nel nostro organismo: esse sono miliardi. Ciascuna di esse ha un suo proprio metabolismo, mirante alla propria conservazione; molecole in esse vanno in tutte le direzioni, altre ristanno. Una centrale, sita nel nucleo, regola senza sosta tutti i movimenti. Le cellule si organizzano in organi, questi si collegano tra loro in apparati; una circolazione ininterrotta di unità cellulari e molecolari va su vie fluviali o lungo percorsi bioelettrici: è tutto un viavai, un tran-tran incessante. Batte il cuore, e mai s’interrompe; il fegato, la fabbrica principale del metabolismo digerente, non chiude mai i battenti, i reni filtrano di continuo il sangue, vigilando senza sosta sulla sua purezza.
Ma, chi di noi sente, di tanta immensa vita, almeno l’eco? Ogni organismo vivente è un cosmo, anche se micro, confrontato con il cosmo fisico, e ogni cosmo ha la sua voce. Ma, questa voce, chi di noi la sente? E quante grida - che talvolta sono vere urla - lancia il nostro pensiero, senza profferir parola: quale orecchio percepisce queste voci, pur tanto reali e tanto sofferte nel loro essere silenziose, perché mai pronunciate, ma solo pensate? Il sordo che non sente per sordità è solo di poco più sordo dell’uomo che dice di sentire.
- Lo spirito vede e sente -
L’uomo ha occhi per vedere, ma, sostanzialmente, non vede; ha orecchi per udire, ma, fondamentalmente, non sente: come si può uscire da tanta cecità e vincere tanta sordità? L’uomo in quanto uomo, così come è strutturato, per quanto affini al massimo delle possibilità umane i suoi sensori visivi ed acustici, resterà ancor sempre un piccolo grande cieco e un piccolo grande sordo, pur nella complessità del suo essere una straordinaria macchina psicofisica.
Egli è fatto così. E, per il principio universale espresso nella formula omnis agens natura sui agit – cioè, ogni essere agisce in conformità alla sua natura - per quanto si sforzerà, non riuscirà a superare la sua cecità e la sua sordità più di tanto. Questi i limiti dell’uomo in quanto humus. Ma, per nostra buona sorte, l’uomo è anche, e soprattutto, tempio dello spirito, è esso stesso uno spirito che vive da uomo: egli è, sostanzialmente, una lunga emozione dello spirito.
Lo spirito, che è nell’uomo, è fatto di stoffa divina, i suoi occhi sono la vista del Padre, i suoi orecchi sono l’udito di Dio: capaci, gli uni, di vedere, gli altri di udire, laddove l’uomo è cieco e sordo. Se questo spirito in noi sonnecchia, se è relegato in un cantuccio, se non è il protagonista delle azioni della storia e della vita dell’individuo che egli inabita, allora è l’uomo che guarda attorno a sé con i suoi propri occhi, allora è l’uomo che ascolta le voci d’intorno, e siamo nelle tenebre della cecità e nel silenzio della sordità: i cieli manifestano e raccontano la gloria di Dio, ma l’uomo non vede, l’uomo non sente.
Se lo spirito, che è nell’uomo, si risveglia e vive l’uomo, non è più l’uomo che guarda o che sente, ma è lo spirito che osserva e ascolta: allora si aprono i cieli e si manifesta la gloria di Dio. L’individuo che è più spirito che homo-humus, viene rapito nell’estasi della contemplazione, e vede ascolta e comprende i cieli che parlano di Dio, sente il respiro del cosmo e quello delle singole cellule, avverte la danza delle molecole e degli atomi; per lui le tenebre diventano luce, il silenzio delle cose tutte si trasforma in una immensa dolce sinfonia.
Quando lo spirito si ridesta, vede. Allora, tutto si anima di una animazione divina, il sole diventa fratello sole, e la luna è, ora, nostra sorella. Tutte le cose vengono viste nella loro essenza più intima e più profonda, tutto diventa Dio, perché tutto è Dio; la stessa materia è intuita e sentita quale manifestazione dello spirito, anche se limitata al solo aspetto della materialità.
Se è lo spirito a guardare, l’orizzonte delle cose tutte si amplia a dismisura, e si allarga sempre di più, in un crescendo inarrestabile, nell’inseguimento di un traguardo ideale, praticamente irraggiungibile, ma che funge da stimolo ininterrotto, e straordinariamente efficace, per lo spirito che si è destato alla coscienza della coincidenza – almeno virtuale e potenziale - del proprio orizzonte visivo e uditivo con quello di Dio.
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