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Inserito il - 19/06/2012 : 08:41:26
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Egli (Yoganandaji) sapeva anche se i suoi discepoli bevevano alcoolici, senza averli neppure visti....
di Swami Kriyananda
Tratto da: (Donald Walters) SWAMI KRIYANANDA "IL SENTIERO" (Autobiografia di uno yogi occidentale, discepolo di Paramahansa Yogananda) Traduzione di MAURO MERCI EDIZIONI MEDITERRANEE - ROMA
"Il Maestro mi impartì una volta una buona lezione sull'atteggiamento che si deve tenere nei confronti del nostro lavoro". La signora Vera Brown (ora Meera Mata), una discepola anziana e progredita alla quale Yogananda aveva affidato la responsabilità dell'educazione di alcuni degli ultimi arrivati, stava dividendo con me alcune delle sue esperienze con il nostro Guru.
<<"Lavori troppo", mi disse il Maestro un giorno. "Devi lavorare di meno. Se non lo farai, ti rovinerai la salute">>.
<<"Benissimo", pensai, "cercherò di faticare meno">>.
"Due o tre giorni dopo, con mia grande sorpresa, il Maestro mi affidò più lavoro da sbrigare!".
Gli occhi della signora Brown ebbero un guizzo. <<"Okay, Maestro", pensai, "saprai bene cosa stai facendo!". Mi assunsi i miei nuovi doveri, ma continuai a chiedermi: "Come far andare d'accordo questo lavoro straordinario con la raccomandazione di lavorare meno?">>.
"Un paio di giorni dopo il maestro mi mandò ancora a chiamare e mi disse, stavolta con voce severa: "Non devi lavorare così duramente. In questa vita hai già fatto quanto basta per parecchie incarnazioni".
"Che dovevo fare? Cercai ancora di porre un limite alle mie attività con l'unico risultato che il maestro, due o tre giorni dopo, mi affidò più lavoro che mai!".
"La scena si ripeté parecchie volte. Il Maestro mi invitava a lavorare meno e subito aggiungeva nuovi incarichi a quelli che già avevo, costringendomi a lavorare di più. Continuavo a ripetermi che doveva sapere cosa stava facendo e che toccava a me cercare di capire come uscirne".
"Finalmente un giorno affrontai il Maestro. "Signore", gli dissi, "invece che continuare ad usare la parola lavoro, nella nostra vita attuale, perché non la sostituiamo con il termine servizio?".
Yogananda scoppiò a ridere: "E' stata una recita ben riuscita", commentò. "Per tutta la vita hai continuato a pensare: lavoro! lavoro! lavoro! Bastava il pensiero a farti sentire esausto. Vedrai come ti sentirai diversamente considerando il lavoro un servizio divino! Quando le azioni sono compiute per piacere a Dio, si può lavorare il doppio senza per questo sentirsi mai stanchi!".
La signora Brown, il cui fragile corpo pareva non esaurire mai l'energia indipendentemente da quanto lavorasse, rise allegramente. "Vedi", concluse, "basta l'intenzione di piacere a Dio perché ci sentiamo colmati dalla sua energia. Il Maestro afferma che è la nostra svogliatezza a interrompere questo flusso". "E' vero", risposi meditabondo "tutte le volte che ho messo in pratica questo principio, ho verificato la sua straordinaria efficacia. Ma", continuai, "è un altro l'ostacolo contro il quale mi arresto: la mia troppo volenterosità. Cosa si può fare a questo proposito?".
"Come si può essere troppo volenterosi?".
"Voglio dire che mi entusiasmo eccessivamente nei confronti di ogni cosa stia facendo, e perdo di conseguenza la mia pace interiore, ricadendo nell'antica coscienza di star lavorando sodo, che mi porta a stancarmi moltissimo."
"Capisco", annuì la signora Brown. Il suo viso esprimeva comprensione. "E' giusto. Senza la pace interiore perdiamo la coscienza della presenza di Dio e quando non riusciamo più a sentirLo dentro di noi, non possiamo sentire neppure la sua energia." Rise nuovamente. "Il Maestro mi ha impartito una buona lezione anche a questo proposito."
"Un giorno si stava preparando il pranzo nella sua cucina. Ero anch'io nella stanza e, in mancanza di meglio da fare, decisi di pulire e rassettare a mano a mano che lui sporcava o metteva fuori posto qualcosa. Appena vuotava un padella, la lavavo; appena versava qualcosa, ripulivo le macchie".
"Beh, cominciò a insudiciare un numero impressionante di padelle e a versare cibo qua e là per tavoli e fornelli. Mi toccava lavorare sempre più alacremente per tenergli dietro. Non avevo mai visto cucinare in modo tanto sciatto in tutta la mia vita! alla fine non potei che abbandonare. Mi venne in mente che non cascava il mondo se attendevo che avesse finito prima di intervenire ancora".
"Appena mi fui seduta a guardarlo notai che sorrideva, ma non disse una parola. Mi accorsi però che aveva smesso improvvisamente di fare tutta quella confusione. Finalmente mi balenò alla mente il pensiero che aveva soltanto voluto impartirmi una lezione sulla differenza che intercorre fra un'attività calma, in costante contemplazione di Dio, e quella sorta di inquietudine alla quale è facile indulgere quando il lavoro è fine di se stesso. Avevo dimostrato troppo affanno nella mia operosità e il Maestro aveva scelto di rendermi evidente il mio errore portandomi a trarne le logiche conclusioni!".
Il cammino che porta al progresso spirituale sarebbe relativamente facile da comprendere - così almeno si crede - se comportasse soltanto meditazione, visioni estatiche, inebrianti espansioni dell'area della coscienza. Perché mai, viene da chiedersi, deve essere complicato da attività mondane come scavar fossi, scrivere lettere, o ripulire cucine? E' possibile simpatizzare, almeno a un certo livello, col discepolo riluttante che il giorno che completammo la piscina a Twenty-Nine Palms cominciò a brontolare: "Non sono venuto qui a impastare cemento!". Più di un devoto sincero si sarà probabilmente chiesto cosa avesse a che fare l'impastare cemento (o scavar fossi, scrivere lettere, ripulire cucine) con la ricerca di Dio.
La risposta non potrebbe essere più semplice: nulla! Almeno direttamente. Yogananda ci narrò un giorno la storia di un uomo che depose un biglietto da mille dollari sul piattino dell'elemosina in una chiesa e che poi si sorprese moltissimo quando Dio non esaudì la sua preghiera. Ridendo, commentò: "Dio era già quel biglietto da mille dollari tanto sul piattino che in tasca all'uomo! Cosa Gli doveva importare una semplice questione di collocazione?". Il regno di maya (l'illusione cosmica) si può paragonare alla superficie di un oceano: per quanto siano alte le ondate levate dalla tempesta, il suo livello complessivo rimane sempre il medesimo. Dio non ha bisogno di nulla che noi possiamo offrirGli. Egli è già tutto! Egli desidera da noi, diceva il Maestro, soltanto il nostro amore.
Il fine dell'opera spirituale non è quindi fare qualcosa per Dio, quanto piuttosto portare a compimento quanto di più importante possiamo fare per noi stessi: la purificazione del nostro cuore. nessuna opera offerta a Dio è più o meno importante di qualsiasi altra. Nella Bhagavad Gita si afferma che Egli accetta anche un fiore o addirittura una foglia in offerta, purché gli siano presentati con devozione. Ciò che veramente importa è di raggiungere lo stato nel quale tutto il nostro amore, tutta la nostra energia fluiscono naturalmente verso il Divino.
Anche la meditazione fa parte delle opere. Certo essa differisce da occupazioni come scavar fossi, ma, se è soltanto per questo, anche un lavoro di progettazione, in quanto esclusivamente mentale, se ne differenzia; eppure chi oserebbe considerarlo un lavoro meno autentico di quanto non sia l'esecuzione fisica del progetto? Anche nel regno animale le doti intellettive sono spesso oggetto di maggiore considerazione che la forza bruta. (Osservate per esempio una muta di cani: è quello dall'ingegno più vivace, non il più grosso, ad avere solitamente il comando). La meditazione è la più perfezionata ed elevata delle attività mentali. Da essa sono venute le maggiori ispirazioni. Se chi aspira alla comunione spirituale con Dio riuscisse a meditare profondamente tutto il giorno, non avrebbe alcuna necessità di mettersi a scavar fossi o di compiere un qualsiasi altro lavoro.
La chiave è ovviamente in questa parola: profondamente.
Mrinalini Mata, già discepola del Maestro che era ancora un'adolescente, lo incontrò un giorno al tavolo della colazione. "Non hai meditato questa mattina", osservò Yogananda.
"Come no, signore!", protestò la ragazza. "Ho meditato per un'ora intera!".
"Avresti dovuto meditare soltanto mezz'ora", ribatté per nulla impressionato il Maestro. Aveva visto infatti che, pur essendo rimasta seduta più a lungo, ella aveva in realtà meditato con minore intensità, non essendo quel giorno nella disposizione adatta per meditare profondamente.
L'intensità è tutto: intensità di consapevolezza. La supercoscienza non può essere conseguita con sforzi inconsistenti e tiepida convinzione. "Dovete essere tranquillamente attivi, e attivamente tranquilli", consigliava il Maestro. "Cercate di essere intensamente consapevoli di tutto quanto state facendo". Il lavoro, sul sentiero spirituale, è un mezzo che aiuta il ricercatore a incanalare costantemente e dinamicamente verso Dio le proprie energie.
"Fate sì che ogni minuto abbia importanza", ci esortava il Maestro. "I minuti sono più importanti che gli anni". Chi fa oggetto della propria totale concentrazione il lavoro svolto come offerta a Dio, scoprirà presto di riuscire a meditare più profondamente.
"Quando lavorate per Dio e non per il vostro sé", ci disse un giorno, "è come se steste meditando. Lavorare così vi aiuta a meditare, meditare vi aiuta a operare in questo modo. Vi è necessario questo equilibrio. La meditazione soltanto vi renderebbe pigri e i vostri sensi prenderebbero il sopravvento. Con il lavoro soltanto, la vostra mente diverrebbe inquieta e finireste per scordarvi di Dio".
Yogananda ci insegnò a considerare santo ogni lavoro svolto per piacere a Dio. Per impedire che i discepoli che erano stati investiti delle responsabilità del ministero immaginassero che il loro lavoro di insegnanti e consiglieri dei fedeli fosse più spirituale di quello dei discepoli che curavano la manutenzione del giardino, assegnò ad essi occupazioni manuali. In quel fine settimana quando il Maestro mi inviò per la prima volta a predicare a San Diego, ricevetti a questo proposito un'utilissima lezione da Carl Swenson (in seguito fratello Sarolananda), un condiscepolo di Encinitas. "Guarda le mie mani!" mi ero lamentato. "Sono tutte incrostate di cemento. La gente penserà che non mi sono neanche preso la briga di lavarle".
"Di che ti preoccupi?" protestò Carl. "Sono le tue onorificenze!".
Il Maestro ci insegnò non soltanto a offrire a Dio il nostro lavoro momento per momento, ma a vedere anche in Lui il reale Esecutore, che agiva per nostro tramite. "Dormivo", disse, "e sognavo di star lavorando. Mi svegliai e vidi che era Dio ad agire". Operare in questo spirito non doveva significare però che ci riducessimo ad automi. Ricordo una domenica mattina, quando a metà del sermone pensai: "Se è davvero Dio l'unico Fattore, perché non estraniarmi mentalmente in modo totale dalla scena e attendere che Egli parli per la mia bocca?". Seguirono due minuti di silenzio! Gli amici presenti nella chiesa pensarono che fossi paralizzato dal nervosismo. Per me quella pausa costituì invece soltanto un interessante esperimento, al quale posi fine traendo la conclusione che Dio non aveva alcuna intenzione di parlare per me. Ero io che dovevo svolgere quel compito, anche se Sua era l'ispirazione che dettava le mie parole, almeno nel grado in cui io riuscivo realmente ad attingervi.
Individuare in Dio l'unico Datore significa riconoscere che viviamo della Sua energia e con la sua ispirazione e quindi non attribuirsi alcun merito personale per ciò che facciamo. Un tale atteggiamento aiuta a conservarvi umili e accresce notevolmente i poteri di realizzazione personali. Il Maestro mi istruì di pregare Dio e i nostri guru prima di ogni conferenza perché mi usassero come loro strumento, sicché potessi esprimere ciò che essi volevano che dicessi. Ma l'umiltà - ahimé! - non è una virtù che si acquisisca facilmente. Dopo aver penato per vari mesi per svilupparla in me, mi svegliai una mattina con la netta percezione di esserne orgoglioso! Anche nei miei sforzi per rendere più intensa la mia devozione mi trovai a scoprire a un certo punto che cominciavo a compiacermene. ("Se ami te stesso", fu il commento del Maestro, "come puoi amare Dio?"). Il reale segreto dell'umiltà, come andai scoprendo gradualmente, è l'onestà. Considerare ogni cosa nella sua giusta proporzione col resto riduce infatti la possibilità di prendere troppo sul serio alcunché, men che meno se stessi.
Come rispose una volta sorella Gyanamata a Bernard, che l'aveva ringraziata per l'aiuto spirituale che ella per parecchi anni gli aveva amorosamente accordato, "E' nella natura degli alberi di fico produrre fichi". Le sue parole rivelarono l'umiltà propria del perfetto distacco, vale a dire, lo ripeto, della totale onestà nei confronti di se stessa.
Nel suo sforzo di scuoterci dalla nostra tiepida buona volontà - lui la chiamava "un cavallo vapore di coscienza" -, il Maestro ci esortava sempre a una visione positiva e fiduciosa, all'affermazione di possibilità, piuttosto che al loro indebolimento con un numero eccessivo di obiezioni cosiddette "ragionevoli". Ricordo come mi salutò un giorno. "Come stai, Walter?".
"Beh", cominciai...
"Così va bene!", mi interruppe prontamente, troncando sul nascere quanto a suo giudizio era soltanto un leggero attacco di "ipocondria". Di fronte ai nostri momenti di depressione non fu mai tollerante e ci esortò sempre a bandirli con fermezza, assumendo un vigoroso atteggiamento positivo. "Soffro quando vi vedo in preda ai vostri umori", confessò una volta. "In quelle occasioni infatti siete in completo dominio di Satana". Una giovane discepola, diciassettenne, presentava una certa inclinazione a un temperamento lunatico. "Se vuoi essere infelice", la affrontò il Maestro, "nessuno al mondo può renderti felice. Se invece decidi di essere felice, nessuno al mondo sarà capace di rattristarti". Daya Mata mi confidò: "Il Maestro non sopporta neppure di averci intorno quando siamo lunatici".
Gli accessi di umore nero non costituivano spesso un mio particolare problema. Ricordo però come un giorno caddi nel tranello della depressione e l'utilissimo metodo che scoprii per uscirne.
Accadde in febbraio o in marzo del 1949. Il Maestro era stato assente da Mount Washington per diverse settimane e non lo avevo mai visto per tutto quel tempo. Cominciavo a sentire acutamente la sua assenza, quando finalmente ritornò. Il giorno seguente mi fu ordinato di incaricare qualcuno di portare una damigiana da venticinque litri d'acqua potabile nella cucina personale del Maestro, al piano superiore. Mi riservai avidamente l'esecuzione di quel servizio. Arrivato di sopra con la damigiana, sentii il Maestro che stava dettando una lettera in salotto. Sperando di attrarre la sua attenzione, scossi rumorosamente il recipiente e feci tutto il fracasso che ritenevo rientrasse nei limiti della decenza per un lavoro che richiedeva in realtà il minimo rumore. Ma il Maestro non mi prestò attenzione. "Non gli importa nulla che senta la sua mancanza!", pensai piombando improvvisamente in una violenta depressione. "Per lui sono soltanto un servo, non un discepolo!". Di lì passai ben presto a rimuginare sulla natura spietata di questo mondo, dove nessuno si cura realmente di nessun altro. Dopo pochi attimi feci un improvviso voltafaccia. "No, in realtà il Maestro si cura di me, ma mi considera un caso tanto disperato che potrebbe con lo stesso successo versare acqua in un abisso senza fondo!". La mia mente era ormai in piena ebollizione. Cercai di ragionare con me stesso: "Cerca di capire. Ovviamente ha da fare. Come puoi pretendere che abbandoni tutto soltanto per te?".
"Ah sì?" replicava la mia mente recalcitrante. "Già lo immagino a dire: "Guarda, guarda, sta arrivando Walter, quella nullità! Presto, presto, fatemi dettare una lettera così ho una scusa per non doverlo chiamare dentro".
Era chiaro che la ragione non sarebbe riuscita a sottrarmi a questo vortice mentale. E infatti la tendenza dell'intelletto è di appoggiare ogni emozione che si trovi ad essere predominante in quel momento.
"Vi piace proprio aver la luna?", domandai ai cittadini della mia mente.
"No!", risposero in coro, all'unanimità se si eccettuano due o tre brontoloni giù in fondo . "Benissimo allora, ragazzi, se la ragione non ce la fa, vediamo se cambiare il livello di coscienza sarà il trucco vincente".
Scesi nella mia "caverna" e là mi immersi profondamente in meditazione, la mente ben concentrata sul Centro Cristico, fra le sopracciglia. Bastarono cinque minuti perché il mio stato d'animo fosse tanto fiducioso da non rendermi più necessario affermare alcunché. "Ma certo che era occupato!", pensai. "Non ci ha detto tanto spesso che la reale comunicazione con lui avviene nella nostra interiorità, durante la meditazione? Cosa succederebbe se tutti i discepoli cercassero egoisticamente di accaparrarsi un po' del suo tempo? Non gliene rimarrebbe abbastanza per completare i suoi scritti che saranno utili a migliaia di persone".
"Signore", chiese una volta un discepolo, "cosa provoca gli accessi di umore nero?".
Il Maestro rispose: "La causa è l'eccessivo indulgere, in passato, ai piaceri dei sensi con il conseguente insorgere di nausea e disgusto. Se vi abbandonerete alla depressione", aggiunse in tono d'ammonimento, "rafforzerete l'oscillazione di ritorno della mente verso i piaceri sensoriali. E' così che opera la legge di dualità: muovendosi costantemente avanti e indietro, come un pendolo, fra stati opposti di coscienza. Se sottrarrete l'energia di spinta a una estremità dell'oscillazione, non arrendendovi alle vostre ubbie, scoprirete che anche la presa che i sensi hanno su di voi all'estremo opposto sarà divenuta più debole".
Imparai anche altrimenti quando fosse importante non indulgere troppo alle proprie inclinazioni mentali. Per qualche tempo, durante il mio primo anno a Mount Washington, fui quasi ossessionato dalla sonnolenza durante la meditazione. Non facevo in tempo a sedermi che la testa cominciava a ciondolarmi. Un giorno mi sentivo particolarmente colmo di gioia interiore e non vedevo l'ora che venisse la sera per ritirarmi a meditare, ma con mio immenso disgusto, nel momento in cui cominciai a concentrarmi il sopore discese ugualmente su di me come una fitta nebbia. Mi infuriai.
"Dal momento che insisti tanto a voler dormire", rimbrottai la mia mente, "non ti lascerò dormire affatto!".
Rimasi alzato tutta la notte, battendo lettere alla macchina da scrivere, passeggiando per il parco, bevendo tè, tutto, insomma, quanto potesse vincere la mia insistente brama di sonno. Quando spuntò il giorno, uscii a lavorare alacremente nel giardino. La sera successiva la mia mente era diventata tanto remissiva - per timore, immagino, che abusassi di lei imponendole l'insonnia per un'altra notte - che la sonnolenza non fece assolutamente la sua comparsa e non mi infastidì più per diversi mesi.
Mi applicavo alla meditazione con la stessa alacrità con cui attendevo durante il giorno ai vari compiti che mi erano affidati ("Lavori troppo sodo", mi disse il Maestro. "Quando mediti, dovresti rilassarti di più"). Imparai ben presto che il vecchio adagio americano "Non mettere tutte le tue uova in una cesta" * "Non rischiare il tutto per tutto" è il significato della metafora. N.d.T. * è vero, oltre che per le aspettative mondane, anche per le spirituali.
Nelle sedute di meditazione del sabato scendevo sempre più in profondità nel silenzio interiore. "Ancora un piccolo sforzo", cominciai a pensare, "e scivolerò certamente nello stato di supercoscienza". Un sabato mattina entrai nella mia stanza sotterranea risoluto a non interrompere la meditazione finché non avessi conseguito l'ambita meta. Sedetti per nove ore consecutive, applicando senza un attimo di distrazione tutta la forza di volontà alla quale potevo fare appello. Alla fine, esausto, fui costretto ad ammettere il mio insuccesso. Se mi fossi concesso una pausa prima di arrivare all'esaurimento delle mie energie, avrei evitato di piombare nello scoraggiamento, conservando la fiducia in me stesso sufficiente a continuare il mio tentativo il sabato seguente. Così invece, per quanto continuassi a meditare con regolarità, dovettero trascorrere dei mesi prima che riuscissi a compiere di nuovo uno sforzo realmente intenso. Fu anzi proprio da quel fallimento che ebbe inizio l'ossessiva sonnolenza della quale ho parlato.
Eppure, anche in questo periodo, fui ampiamente ricompensato: durante i momenti di silenzio interiore ero a volte invaso da una profonda gioia, la mia devozione era sempre più intensa e udivo suoni che mi colmavano di beatitudine, uno, soprattutto, come di vento tra gli alberi. Il Maestro ci consigliò però sempre vivamente di non parlare delle nostre esperienze di meditazione e preferisco quindi conservare le più preziose di esse ben racchiuse nel mio cuore.
Mi dedicavo anima e corpo ad accrescere la mia devozione, cantando e pregando ogni giorno per ottenere la grazia di un intenso amore per Dio. Il Guru un giorno mi sorrise con amore. "Continua a sviluppare la tua devozione. Vedi come è arida la tua vita se ti affidi soltanto all'intelletto.!"
Il suo aiuto non mancava di giungere a chiunque lo invocasse mentalmente in meditazione. Qui egli era la guida, che in ogni occasione ci ispirava a compiere il giusto tipo di sforzo spirituale, in modo sottile e in misura dipendente dalla nostra ricettività. Talvolta, quando lo incontravamo durante il giorno, ci ammoniva riguardo a qualche particolare che era emerso nel corso della nostra meditazione. Vegliava insomma su di noi in ogni modo. Non cessai mai di stupirmi del fatto che, nonostante dovesse badare a un numero così cospicuo di discepoli, potesse essere tanto consapevole, e tanto perfettamente, dei bisogni di ognuno. "Ogni giorno io mi immergo nelle vostre anime", ci disse, "e se scorgo in voi qualcosa che va corretto ve ne parlo. Altrimenti non vi dico nulla." E in un'altra occasione: "Ho vissuto le vite di ognuno di voi. Parecchie volte mi sono calato tanto profondamente in una persona nel corso della notte, da svegliarmi al mattino pensando di essere quella persona! Può essere un'esperienza terribile, se si tratta di qualcuno pieno di capricci e passioni".
Michelle Evans, quella signora alla quale avevo conferito l'iniziazione al Kriya Yoga a San Diego, mi narrò un giorno: "Ero solita bere; non molto, ma come fa la maggior parte della gente, giusto per essere più socievoli. Quando incontrai il Maestro, egli mi disse di smettere. Per un po' non toccai una goccia di alcool. Poi però pensai: "Certo birra e vino non contano". Intendo dire che non sono sullo stesso piano di whisky e brandy, mi segui? Così ricominciai a bere queste due bevande e non fui più costretta a dare tante spiegazioni quando ricevevo degli ospiti".
"Ci crederai? La volta successiva che vidi il Maestro a San Diego, egli mi rivolse uno sguardo penetrante e mi disse: "Io intendevo tutte le bevande alcoliche!". Che scelta mi restava? Ogni volta che sgarravo, lo sapeva!".
Jan Savage, un ragazzino di nove anni che era venuto a Mount Washington con la madre, stava meditando un giorno con Daniel Boone quando gli apparve Gesù Cristo. Eccitatissimo, ne parlò col compagno.
"Dev'essersi trattato della tua immaginazione", disse Boone. "E' meglio che tu non dica nulla prima di aver chiesto il parere del Maestro".
Yogananda era assente in quel periodo e ritornò soltanto la domenica seguente per il servizio. Dopo la cerimonia il piccolo Jan si mise in fila con i fedeli che, come sempre, attendevano di giungere di fronte al Maestro per riceverne la benedizione. Quando gli fu davanti Yogananda stese la mano e gli arruffò con gesto affettuoso i capelli.
"Sapete?", annunciò. "Il piccolo Jan ha avuto una visione di Gesù Cristo. Una vera visione! E' una cosa bellissima!".
Boone mi raccontò in febbraio di un'esperienza che gli era toccata dopo aver mantenuto ininterrottamente per due giorni la mente concentrata sul pensiero del Maestro. Aveva raggiunto una sorta di estasi, nel corso della quale non riusciva assolutamente a percepire il suo corpo, neppure mentre si muoveva o eseguiva i suoi compiti quotidiani in tipografia. "Dovette risolvermi a pregare per riacquistare la sensibilità del mio corpo", disse. "Avevo una paura matta di ferirmi con i macchinari".
Ecco, pensai subito, l'esperienza che faceva per me! Più ansioso di provarla io stesso, temo, che di ricercare umilmente l'armonia col mio guru, concentrai la mia mente sul Maestro. Yogananda era a Encinitas in quel periodo, ma dopo due o tre giorni fece ritorno a Mount Washington. Lo incontrai sulla veranda anteriore poco dopo il suo arrivo.
"Che razza di brutto tiro stai meditando, Walter?". Sorrise in modo significativo.
"Nessuno, signore". Brutto tiro? Non riuscivo a capire.
"Sei sicuro di non star meditando nessun brutto tiro?".
Cominciai a capire cosa intendeva dire, ma ero riluttante ad accettare quella definizione per quanto stavo facendo. Rientrando in casa, il Maestro mi rivolse un sorriso affettuoso. Ripensandoci, non potei fare a meno di ammettere che, se la mia pratica era stata corretta, non altrettanto erano state le mie intenzioni. "Non andate a caccia di esperienze durante la meditazione", ci ammonì il Maestro. "Il cammino che porta a Dio non è un circo".
Più commovente fu l'esperienza di un altro discepolo, il reverendo Michael, che, provando un ardente amore per il Maestro, ripeteva sovente nella sua mente la dichiarazione: "Ti amo, Guru".
Un giorno, con sua grande gioia, il Maestro rispose a quella offerta silenziosa. Avvenne che i due si incontrassero nel giardino dell'eremo di Encinitas, e Yogananda, con uno sguardo che rivelava una profonda tenerezza, disse al discepolo: "Anch'io ti amo".
Il Maestro ricambiava senza esitazione l'amore sincero. Un giorno che sentivo intensamente la sua mancanza, andai fino a Encinitas, dove stava in quel periodo, unicamente per vederlo. Ero arrivato da poco che Yogananda sorpassò un gruppo di noi, di ritorno da un giro in automobile. Vedendomi, mi invitò ad accompagnarlo fino all'eremo. "Mi sei mancato", mi disse con amore. Quanto è raro, pensai, che un sentimento inespresso riceva una risposta tanto sensibile. L'aiuto del Maestro non era limitato ai nostri sforzi interiori di evoluzione spirituale, ma ci veniva accordato anche nel nostro lavoro quotidiano. Un giorno Norman e io stavamo rifacendo l'intonaco di un garage presso l'ingresso principale della tenuta di Mount Washington. La calcina era vecchia e faceva presa in un tempo brevissimo. Per quanto continuassimo ad aggiungervi acqua, dovevamo lavorare al limite delle nostre capacità per esaurire quella che di volta in volta impastavamo prima che si indurisse completamente.
Eravamo a metà del lavoro quando il maestro, che stava uscendo in macchina per una gita, ci scorse e arrestò la vettura, invitandoci a raggiungerlo. Restammo a chiacchierare con lui per quasi una mezz'ora. Eravamo naturalmente lietissimi di questo, ma in fondo alla nostra mente ristagnava una lieve apprensione. E la calcina? Ne avevo appena impastata un bel po' e l'avevo versata sul ponte quando eravamo stati chiamati, e là era rimasta, a indurirsi sempre più di secondo in secondo.
Quando il maestro ci lasciò, tanto Norman che io eravamo ormai rassegnati all'idea di dover prendere una mazza per staccarla a pezzi dall'impalcatura. Fu quindi con grande stupore che la trovammo molle come l'avevamo lasciata. Per tutto il resto del giorno essa non ci diede più alcun fastidio.
Lavorare accanitamente, per come era organizzata la nostra vita, era altrettanto importante che meditare con regolarità. "Dovete essere intensamente attivi per amore di Dio", era il precetto del Maestro, "prima che possiate conseguire la completa inattività dell'unione con Lui." Egli sottolineava però l'importanza della devozione più ancora che del lavoro o della meditazione. "Senza amore per Dio", insegnava, "nessuno può giungere a Lui".
Ogni notte intonavo la traduzione del Maestro di un canto composto dal grande santo bengalese, Ram Proshad: "Verrà per me il giorno che dicendo: Madre! Madre!, i miei occhi si colmeranno di lacrime?". Sentivo operarsi pian piano in me una profonda trasformazione. Cominciai a pensare allora di avere motivo di congratularmi con me stesso, quando un giorno mi giunse voce che il Maestro, parlando con un gruppo di monaci a Encinitas, aveva osservato con voce amorosa nel corso della conversazione:
"Guardate come ho trasformato Walter!".
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