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Inserito il - 29/01/2010 : 10:58:14
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Le relazioni e il Dharma
di Corrado Pensa
Questo scritto è solo in parte connesso all’articolo La relazione coniugale come via di crescita nel Dharma, in Paramita, 52 (1994), pp. 5-11.
La maggior parte dei praticanti di Dharma occidentali non sono monaci o monache che abitano in comunità, ma sono per lo più laici che vivono in casa propria, svolgono un’attività, hanno famiglia oppure, se non hanno una famiglia, sono spesso in una relazione di coppia.
Ora una relazione fondata sopra un saldo impegno reciproco può diventare un terreno molto fertile per praticare l’insegnamento del Buddha. E ciò con beneficio sia della relazione, sia della pratica individuale. Tenendo presente che è possibile avere due tipi di ‘relazione dharmica’: nella prima entrambe le persone sono dedite alla pratica, nella seconda solo una persona è praticante, mentre l’altra non lo è, ma guarda tuttavia con simpatia e solidarietà al cammino del coniuge 1. Arnaud Desjardins non esita a dichiarare che "l’unica relazione che può essere o può comunque gradualmente diventare così ricca e perfetta come la relazione con il guru è la relazione tra moglie e marito" 2. Ritorneremo su questo punto.
Osserviamo ancora questo: per chi è in una relazione dharmica il sangha è costituito da due cerchi, uno esterno e l’altro interno. Il cerchio esterno è rappresentato da amici di Dharma, ossia persone con le quali noi pratichiamo periodicamente, gli insegnanti, e chiunque incoraggi e sostenga il nostro impegno nel Dharma. Il circolo interno, invece, è rappresentato dal nostro coniuge, ossia dalla persona con la quale condividiamo la nostra casa e in compagnia della quale trascorriamo molto tempo. Il cerchio interno può anche includere per un certo periodo i figli, ma il coniuge rimane il referente principale di questo sangha interno.
2. Quando c’è una buona intesa, le relazioni sono veicoli di unione, di apertura del cuore, di generosità, di spirito di servizio e di sacrificio per l’altro. Quanto tutto questo possa riuscire di sostegno alla pratica è evidente e se ne parlerà. Adesso, invece, consideriamo anzitutto l’altra faccia della medaglia, ossia il fatto che le relazioni di coppia sono anche sorgente di avversioni, desideri, paure. Il vantaggio specifico di una relazione dharmica è questo, che, in virtù appunto della pratica, tutti questi turbamenti diventano la materia prima del lavoro interiore per entrambi i coniugi o, comunque, per il coniuge praticante. Per esempio, è raro che in una relazione non si nutrano aspettative (consce o inconsce) l’uno nei riguardi dell’altro: aspettative su come il coniuge deve essere, che cosa è meglio che faccia, chi deve vedere, come deve parlare, come sarebbe bene che si vestisse eccetera. Ora queste aspettative, se ci pensiamo, non sono che espressione di un desiderio di controllare l’altro. Vedere e comprendere quest’ansia di controllo significa toccare con mano la nostra possessività e il nostro attaccamento. E significherà anche avere l’occasione di praticare il lasciare andare, con beneficio per tutti.
Mi sembra importante, a proposito di tutto ciò, sottolineare che in una relazione dharmica ci sono due elementi forti, per dir così: il primo è il reciproco affetto, il secondo è la pratica (di uno solo o di entrambi i membri della coppia). Ora la somma di queste due cose moltiplica il potere e l’efficacia del lavoro interiore. Infatti, se noi lavoriamo a lasciare andare le aspettative riguardo a una persona cui vogliamo bene, noi oltre a ricorrere alla pratica, attingeremo naturalmente all’affetto cioè al volere il bene per questa persona e ciò potenzierà il mio ‘retto sforzo’ di praticante. Inutile dire che se invece di una relazione fondata sull’affetto si tratta di un rapporto basato esclusivamente sull’attaccamento, succederà il contrario: l’attaccamento, infatti, per definizione rafforza le aspettative.
3. In proposito, vorrei ricordare qualche esperienza personale, anche se non si tratta di aspettative, bensì di quell’altra forma di attaccamento che è il desiderio di avere ragione. Mi torna in mente anzitutto la graduale scoperta, grazie alla consapevolezza, di quanto sia alienante e isolante la compulsione a privilegiare comunque il proprio punto di vista: di fatto, una delle manifestazioni più macroscopiche dell’io/mio e, al tempo stesso, tra le più insidiose, data la facilità con la quale si presta a razionalizzazioni varie ("Mi limito ai fatti", "Esprimo l’opinione di molti" eccetera).
Al punto che non è raro imbattersi in cultori seri e appassionati del Dharma che non si accorgono di tenere l’area in questione completamente incolta, ossia non appena si profila un confronto di opinioni, la consapevolezza si eclissa.
Ciò che trovo interessante nella mia esperienza è che questo attaccamento ad avere ragione diviene molto più tangibile e quindi ‘lavorabile’ allorché io percepisco che durante la discussione anche mia moglie sta praticando. Questa percezione imprime ulteriore forza alla mia pratica e sicché la disidentificazione nei confronti dell’attaccamento al mio punto di vista è facilitata. Infatti avvertire che anche dall’altra parte c’è lavoro di consapevolezza mi fa sentire appoggiato e sostenuto. Questo sostegno visto nell’ottica dell’io è paradossale e incomprensibile. L’unico appoggio comprensibile per l’ego sarebbe quello di sentirsi dare finalmente ragione! Ma se siamo praticanti, la percezione di condividere la pratica in un momento di difficoltà per noi e per l’altro è, in realtà, un sostegno molto più forte di quello che verrebbe dal sentirsi dare ragione. Infatti la pratica comune, con l’empatia che essa produce, si rivela come qualcosa di molto più unificante e pacificante del consenso a una nostra opinione.
Ancora un esempio sui molti possibili benefici della pratica di coppia. Al sopravvenire di uno stato mentale negativo, io ero abituato ad applicare alcune classiche modalità di pratica del Dharma: dalla consapevolezza di sensazioni fisiche, al respiro cosciente, alla investigazione dell’identificazione con quello stato, all’evocazione della metta e delle sue tre sorelle. Quale è stato il contributo della pratica di coppia? Mi riferisco a quei casi nei quali mia moglie era al corrente della mia situazione interna. Anche qui: sentire che mentre io da una parte lavoravo per stare con il mio piccolo travaglio, dall’altra lei partecipava in virtù di una consapevolezza empatica aggiungeva vita alla mia pratica. Direi anche che la rendeva più rilassata e meno austera. Ancora dunque un piccolo duplice giovamento: per la pratica che diventava più autentica e per la coppia che si sentiva più unita.
Questi momenti di pratica sortivano effetti molto simili in mia moglie, come emergeva nei nostri periodici scambi di impressioni e di riflessioni circa le nostre pratiche individuali e la nostra pratica di coppia. Questi piccoli ‘seminari’ li continuiamo a fare, perché ci piacciono e li troviamo utili. Scambiarsi ognuno informazioni sulla propria pratica, imparare ad avere una percezione della pratica dell’altro, sentire come l’altro percepisce la nostra pratica sono un evidente aiuto per la pratica dei due e un buon fermento unitivo per la coppia. È vero che, negli ultimi tre anni, l’arrivo di un bambino ha movimentato assai la nostra esistenza, aprendo ovviamente un nuovo e fondamentale ‘fronte di pratica’. A lungo le ‘sbandate’ da inesperienza parentale e da persistente mancanza di sonno si sono sprecate, come suol dirsi. Ora le cose sembrano nettamente cambiate e c’è, ad esempio, ogni tanto la gioia di vedere la prontezza di risposta del bambino allorché riusciamo a imbroccare la linea giusta di pratica davanti a un capriccio.
Un ultimo ricordo personale. All’inizio della relazione di coppia che mi portò al matrimonio, malgrado le mie intenzioni e i sani principi non dualistici che esponevo alla mia futura moglie, io in realtà, facevo ancora un bel po’ di distinzione tra ‘attività dharmiche’ e ‘attività non dharmiche’, e non facevo mistero del mio ‘tifo’ per le ‘attività dharmiche’: meditazione, ritiri, letture giuste eccetera. A me sembra che, col tempo, proprio in virtù della stessa relazione, della pratica di coppia, delle consultazioni reciproche sulla pratica, questo mio atteggiamento dualistico sia prima diminuito e, poi, utilmente tramontato. Nel venir meno di questa distinzione artificiosa, rigida e astratta, avrà probabilmente pesato anche la mia pratica. Ma ho l’impressione che soprattutto la relazione coniugale, sommata naturalmente alla pratica, abbia sortito un effetto ‘ammorbidente’ per eccellenza, con il conseguente scioglimento di quella distinzione che, di fatto, era basata su un gratuito giudizio di valore, non molto dharmico. La buona relazione, così come la buona pratica, porta pace e distensione e questo giova a superare barriere, dualismi (di cui quello in oggetto è solo un esempio) e moralismi tipicamente connessi ad avversione e infelicità.
4. Una relazione dharmica, così come qualsiasi buona relazione, contribuisce ad alimentare tutto ciò che è accettazione e fiducia. Se un bambino riceve dai propri genitori dimostrazioni fisiche di affetto, parole amorevoli e attenzione sollecita, ciò risulterà nello sviluppo di un senso di fiducia in sé stesso e nel mondo. Ora una relazione amorevole e ben salda riattiva questa impressione radicale di accettazione-fiducia. E per coloro che non avessero ricevuto questo nutrimento nella fanciullezza, una relazione dharmica può talora riuscire a sviluppare vera accettazione e fiducia per la prima volta nella vita di una persona.
A questo proposito, ci sono modi specifici per favorire la cooperazione tra pratica del Dharma e relazione dharmica. Le tradizionali meditazioni buddhiste di metta, benevolenza, karuna, compassione, mudita, gioia compartecipe e upekkha, equanimità (ovvero i quattro brahmavihara), si prestano particolarmente ad accrescere e approfondire un senso di accettazione-fiducia che sia già presente o che, comunque, aspiri a svilupparsi. A me sembra che l’invio di pensieri amorevoli ricorrendo alle frasi specifiche di metta, quali: "Che tu possa essere in buona salute, felice, al sicuro dai pericoli", o altre equivalenti, dovrebbe essere la pratica di fondo in una relazione. Nel mio caso, oltre a indirizzare la metta a mia moglie e a nostro figlio nella vita quotidiana, nei miei ritiri personali, impiego una fase della giornata a coltivare metta nei loro confronti.
È molto da incoraggiare, io credo, in un praticante di Dharma il ricorso pronto alla pratica di karuna o compassione allorché vediamo che il nostro coniuge soffre, oppure la coltivazione di mudita, gioia compartecipe, allorché lei/lui appare rallegrarsi per qualche motivo. Infine, come in tutto, così anche nella relazione, è superfluo dire quanto sia centrale e cruciale la pratica dell’equanimità, upekkha, cuore degli altri brahmavihara (che non possono raggiungere la piena autenticità in mancanza di upekkha) e cuore della stessa consapevolezza, non a caso definita attenzione non giudicante. Nella relazione di coppia si tratterà di affrontare insieme le difficoltà della vita coltivando la spaziosità feconda dell’equanimità. E di affrontare le difficoltà inerenti alla stessa relazione cercando da un lato di capire e di comunicare il più possibile, dall’altro senza stancarsi di coltivare l’equanimità (talora con frasi mentali del tipo: "Che io possa accettare noi due così come siamo" e simili): questo è fondamentale per la prosperità della relazione ed è fondamentale come cammino verso la liberazione.
Osserviamo che la pratica della gioia compartecipe, mudita ("Che la tua gioia possa durare il più possibile") è un indice piuttosto preciso del grado di salute di una relazione. Se ci accorgiamo che siamo distratti e assenti davanti alle piccole soddisfazioni del nostro coniuge o anche semplicemente davanti al suo buon umore e se, di conseguenza, perdiamo spesso l’occasione di partecipare alla sua gioia, ciò significherà che noi stiamo privando noi stessi e il nostro coniuge di una fonte di benessere. In questo caso mi sembra imperativo, se teniamo alla nostra relazione, di investigare a fondo i motivi di questa nostra distrazione.
Parlando di pratica di coppia sarebbe strano non accennare alla sessualità. Ci occuperemo più avanti del terzo precetto, relativo alla fedeltà coniugale. Ora vorrei considerare brevemente la questione della sessualità in relazione alla pratica di metta, questione sulla quale mi pare opportuno spendere qualche parola. Nella tradizione buddhista Theravada i praticanti sono incoraggiati a non mandare metta all’indirizzo di persone verso le quali hanno un’attrazione sessuale. Infatti l’attrazione sessuale è definita il ‘nemico prossimo’ della metta. Prossimo, vicino, perché può essere scambiato erroneamente per metta. Sicché possiamo essere convinti di praticare metta laddove, in realtà, stiamo alimentando l’attaccamento, che è una forza egocentrica e non già benevolenza universale incondizionata o, per lo meno, una forte tendenza in questa direzione.
Ora, a me pare che mentre queste istruzioni sono ineccepibili riguardo a monaci e monache votati alla castità, le cose siano più complesse quando si tratta di laici. In primo luogo credo che, se siamo adulti, dovremmo essere in grado di distinguere chiaramente tra desiderio sessuale e sollecitudine, cura, benevolenza e saremo perciò naturalmente capaci di accantonare il primo e coltivare le seconde. In secondo luogo, una volta accertata questa capacità di discernimento, perché mai non dovremmo infondere la metta anche nella sessualità? Perché questa eccezione? E, soprattutto, quale sarebbe per un praticante l’alternativa? Invece chiunque ha fatto in modo di estendere la metta alla sessualità con una certa costanza e per un periodo di tempo sufficientemente lungo, sa bene che i tipici effetti della metta, prima o poi, si fanno sentire: la sessualità diventa meno compulsiva e possessiva da un lato e più gentile, delicata e oblativa dall’altro.
5. Abbiamo visto che le meditazioni di metta, karuna, mudita e upekkha sono modalità di pratica specialmente fruttuose nell’ambito delle relazioni. Un’altra modalità è quella di coltivare la consapevolezza di tutto quello che è non accettazione, resistenza o mancanza di fiducia nella relazione. Ossia portare la consapevolezza su forme di sofferenza specifiche della relazione: ed è superfluo dire che questa è in genere, un’area di lavoro piuttosto ricca. Infatti, anche nella relazione più armonica di questo mondo, è assai improbabile che non ci siano, per esempio, un certo numero di "non mi piace" reciproci, magari piccoli, riguardo a modi di pensare, di agire e di parlare del coniuge. Di nuovo, l’amore che lega la coppia offre uno straordinario sostegno alla nostra stessa pratica, pratica che, per essere autentica, va mirata anzitutto alla nostra reattività, anche se la nostra reattività è tenue e modesta. C’è una riflessione che personalmente ho sempre trovato specialmente utile (e non è limitata al campo delle relazioni intime) davanti a comportamenti compulsivi altrui che io tendo a giudicare e stigmatizzare. Ossia riflettere sul fatto che la mia reazione giudicante è per lo meno altrettanto ripetitiva, prevedibile e compulsiva. E ciò indica con insuperabile chiarezza che entrambi soffriamo della stessa malattia, sicché l’atteggiamento più appropriato e più consono alla pratica del Dharma sarà quello di generare un’energia benedicente e compassionevole verso l’altro e verso noi stessi.
Santideva, il poeta buddhista indiano dell’8° secolo, osserva che se qualcuno ci colpisce con un bastone, noi certamente non ce la prenderemo col bastone 3. Ce la prenderemo, invece, con chi ha mosso il bastone. Eppure, dice Santideva, così come il bastone è stato mosso, allo stesso modo anche il bastonatore è stato mosso da un insieme di cause e condizioni. Se non ce la prendiamo col bastone perché è manovrato da qualcuno, perché vogliamo prendercela con chi è altrettanto manovrato da tutto un condizionamento? Nel nostro caso, il comportamento del nostro coniuge e la nostra reattività ad esso sono entrambi frutto di condizioni. Percepire con chiarezza questa condizionalità e riflettere sul suo potere non può che intensificare la comprensione e la compassione nell’ambito della coppia.
In tal modo, appoggiati a una base di compassione, noi saremo in grado di focalizzare più agevolmente consapevolezza e chiara comprensione su tutte quelle aspettative e quei concetti che noi alimentiamo riguardo al nostro coniuge e che sono responsabili del ciclo attaccamento-frustrazione e non accettazione in certe aree della nostra relazione. E ciò avrà come frutto un bellissimo regalo per il coniuge e per noi stessi, vale a dire un drastico calo della nostra reattività e della nostra dipendenza dalle aspettative.
A questo proposito, vorrei sottolineare che il nostro atteggiamento riguardo ai piccoli difetti del coniuge è un campo di pratica da non sottovalutare. A causa dell’affetto reciproco, infatti, ci accadrà facilmente di passare sopra cose del genere. Il che può andare benissimo, a patto che non implichi la repressione delle nostre piccole reazioni a quei difetti, repressione che non è certo pratica del Dharma. Una buona idea, invece, sarà quella di lavorare anche con queste nostre ‘mini-reazioni’. Cosicché disporremo di un campo di training relativamente facile e, al tempo stesso, efficace. Va da sé che se sviluppiamo una certa abilità in questa sfera, ci ritroveremo poi molto meglio equipaggiati nel caso di turbamenti più gravi.
D’altra parte, anche qui non mi sembra che ci sia alternativa: il cammino dello sviluppo interiore procede in virtù del fronteggiare sfide prima piccole o minime e quindi via via più grandi. E dobbiamo ricordarci che la situazione che noi abbiamo in una relazione dharmica è una situazione insolita e paradossale. Infatti da una parte ci sono anni, forse decenni, di vita comune, che vuol dire una certa facilità a cadere nell’abitudinario e nel meccanico. Dall’altra parte, tuttavia, noi disponiamo – è qui il paradosso – di quella freschezza e di quella prontezza che sono tipicamente generate dalla pratica del Dharma potenziata dall’affetto reciproco e dal nostro sostenere con tutto il cuore l’uno la pratica dell’altro. Sarebbe un peccato non avvantaggiarsi di una situazione così unica. E ciò ricorrendo a un atteggiamento che a me viene da chiamare di tenera implacabilità. In questo mossi non già da qualche empito perfezionistico, bensì, piuttosto, dalla comprensione che senza una determinazione ferma e gentile a lavorare con qualsiasi zona d’ombra nella relazione, sono in pericolo sia la relazione sia, in qualche modo, la nostra pratica del Dharma.
6. Torniamo adesso a quanto si diceva circa la possibilità che l’un coniuge sia maestro all’altro. Infatti, soprattutto se siamo in presenza di una lunga e buona relazione, ciascun coniuge conosce molto bene le debolezze e i punti di forza dell’altro. Talora ancora meglio dell’interessato! In questo senso un coniuge ha la potenzialità di essere l’insegnante più affidabile per l’altro. Però a una condizione che non è immediatamente accessibile: un bel po’ di affettuosa equanimità. Se è presente questa virtù, allora la devozione per il Dharma consentirà ai coniugi di essere specchio l’uno all’altro, corroborando in tal modo l’intenzione di risvegliarsi il più possibile al momento presente. Così, per esempio, essere specchio fedele dell’indebolirsi della motivazione alla pratica nel nostro coniuge sarà probabilmente un insegnamento molto efficace. Tuttavia, senza una buona dose di affettuosa equanimità, "essere uno specchio" si ridurrà a una sorta di pseudo-imparzialità, di fatto trasudante un chiaro spirito di censura, al di là delle nostre migliori intenzioni. E naturalmente ciò non potrà che incrementare la mancanza di motivazione nell’altra persona.
Nibbida, ovvero il sereno disincanto davanti alle lusinghe dell’avversione e dell’attaccamento (ricordando che il carattere ‘seducente’ dell’attaccamento e dell’avversione è un aspetto dell’ignoranza) è un grande punto di svolta nel cammino di liberazione. Nei Sutta del Buddha è frequente una formula che indica come nibbida sia il presupposto più importante del non attaccamento (viraga) e questo, a sua volta, sia il fondamento della liberazione 4. Nibbida è come dire una stanchezza nuova e promettente. È quando, infatti, cominciamo a essere stanchi di alimentare gli inquinanti mentali, stanchi di regalare tanta energia all’identificazione e al sistematico potenziamento della mente giudicante. D’altra parte questa ‘stanchezza’ è frutto di una lenta infiltrazione di saggezza nella mente-cuore e dunque, lungi dall’essere un qualcosa di opprimente, si manifesta, piuttosto, come una liberatoria leggerezza.
Ora, in merito all’argomento della coppia, mi sembra che la nibbida abbia implicazioni cruciali, dato che significherà, ovviamente, un felice disincanto davanti all’idea di essere infedeli al nostro coniuge. Naturalmente anche una buona relazione non garantisce la fedeltà, solo la rende più facile. Ci sono occasioni nelle quali è necessario fare appello a tutta la nostra determinazione per rimanere fedeli al coniuge e al terzo precetto. Osserviamo, riguardo a quest’ultimo, e in generale, a tutti i precetti, che lunghi anni di dedizione alla pratica rendono i precetti, così come la nibbida, molto più significativi. Anni di pratica approfondiscono la comprensione dei precetti in una maniera molto naturale, tanto che a un certo punto cominciamo a sentirli non soltanto come norme poste a garanzia di civiltà di vita, ma soprattutto come espressioni viventi di saggezza. Dunque, dopo una certa maturazione della pratica, i precetti si caricano di una qualità e di una profondità che, in genere, non possono avere all’inizio della pratica, allorché essi sono ‘soltanto’ precetti. Quanto alla nibbida, essa all’inizio, salvo eccezioni, non esiste poiché, anzi, predomina il suo contrario, l’incantesimo dell’io/mio. Ma se noi continuiamo a praticare, la nibbida prima o poi emergerà e – cosa rilevante – ci accorgeremo che essa opera sinergisticamente con i precetti.
Tornando al terzo ‘precetto di addestramento’ 5, che è quello relativo alla fedeltà coniugale, se all’inizio esso sarà l’ovvio custode della relazione, col tempo, in consonanza con quell’approfondimento di cui si è detto, dovrà diventare, soprattutto, l’offerta di un impegno. E quando l’impegno si fa difficile, l’offerta, seppure travagliata, dovrà avere il gusto della generosità più che la stretta del rigore. Va da sé che una qualche misura di nibbida è l’ingrediente centrale di questa trasformazione. Aggiungiamo che, nell’ambito delle relazioni, nibbida implica un apprezzamento non superficiale di quello che già abbiamo, apprezzamento che scoraggia eloquentemente e silenziosamente movimenti distruttivi. Nibbida nasce da una stagionata familiarità con la mente ‘non lavorata’, che è costituzionalmente irrequieta e avida di accumulare nuove esperienze, e la nibbida comincia a manifestarsi come crescente sfiducia nella ‘ragionevolezza’ accampata dai nostri attaccamenti, incluse proliferanti spinte centrifughe rispetto alla relazione.
7. A conclusione di queste riflessioni succinte su un tema che merita, io credo, di essere costantemente tenuto presente, discusso e approfondito, se crediamo nella possibilità del radicamento di una forte spiritualità laica (e non soltanto buddhista) nel mondo contemporaneo, ancora tre ultime annotazioni.
La prima è che la relazione dharmica, a mano a mano che diventa più salda e intima, prende a suscitare un vero e proprio spirito di devozione, devozione che – verrebbe da dire – chiede essa stessa di essere coltivata: è devozione – ovvero sollecitudine senza riserve – per il coniuge, è devozione per la relazione, ossia un desiderio crescente di prendersene cura, è devozione al Dharma, la cui pratica arricchisce noi e la relazione.
In secondo luogo osserviamo che gli effetti benefici di qualsiasi buona relazione è come se chiedessero di espandersi oltre i confini della coppia, in una aspirazione che potrebbe formularsi con queste parole: "Così come io sono cresciuto/a grazie all’amore, alla comprensione e all’accettazione del mio coniuge e così come il mio coniuge è cresciuto/a grazie al medesimo atteggiamento proveniente da me, possa questo amore, questa comprensione e accettazione espandersi oltre i confini della nostra relazione".
La terza annotazione è questa. Se è vero che questo scritto concerne specificamente la relazione di coppia, è d’altra parte anche vero – e sembra importante sottolinearlo – che una buona parte, anche se non tutta, di quanto si è detto può essere applicata a qualsiasi tipo di relazione, e dunque relazioni di amicizia, di parentela, o, in certi casi, di lavoro. L’altro, praticante o meno, come invito alla comunicazione, all’onestà di parola e di azione, al servizio per il suo benessere, alla generosità e alla condivisione; e l’altro, naturalmente, come invito a incontrare e curare noi stessi, a cominciare da tutta la conflittualità, la reattività, l’avversione o l’attaccamento possessivo che l’altro ci può suscitare. Per capire forse un giorno che la distinzione tra me e l’altro non può che venir meno nell’intuizione della sacralità della vita, che al praticante si rivela sempre più come la cosa più reale.
Note
1. In questo scritto la parola ‘coniuge’ indica chiunque sia impegnato seriamente in una relazione di coppia, e non solo chi è ufficialmente sposato.
2. A. Desjardins, Toward the Fullness of life, Putney and Brattelboro, Vermont 1990, p. 146; ed. orig. Pour une vie reussie, Paris 1987; trad. it. Per una vita riuscita, Perla ed., Grosseto-Milano, s. d.
3. Santideva, Bodhicaryavatara, Oxford University Press, 1996, cap. 6°, strofe 41, p. 53. Ed. ital. Ubaldini, Roma 1998, p. 85
4. P. es. Samyutta-Nikaya 35, 28.
5. Così Bhikkhu Bodhi autorevolmente traduce sikha, in genere reso semplicemente con ‘precetto’.
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