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 La vecchiaia si impara...
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Inserito il - 01/06/2006 : 11:31:57  Mostra Profilo  Rispondi Quotando
La vecchiaia si impara...


di Enzo Bianchi


"La nostra vita arriva a settant'anni, ottanta se ci sono le forze": molte
cose sono cambiate nei tremila anni che ci separano da questo salmo che dà
autorità di parola di Dio alla sapienza umana, eppure la verità che contiene
è una delle poche a non essere sostanzialmente mutata, nonostante il
progressivo elevarsi della speranza di vita e dell'età media, i progressi
della medicina e l'industrializzazione del lavoro.

Sì, settanta, ottant'anni, dopo "l'è ura d'andé", come recita un'altra
sapienza cui mi sento profondamente legato, quella dei contadini del
Monferrato. Così anch'io, varcata la soglia dei sessant'anni, mi confronto
con la vecchiaia proprio a partire da ciò che su questa età della vita
dicono la Bibbia - il libro che, come cristiano e come monaco, non mi stanco
di frequentare per trovarvi una parola per la vita - e gli "anziani di
giorni" che ho avuto la sorte di incontrare lungo il mio cammino.

Leggendo la Bibbia si ha l'impressione che la vecchiaia sia una beatitudine,
perché la vita è il bene supremo e vivere a lungo, fino alla "sazietà dei
giorni", può significare pervenire alla sapienza del cuore e ad assumere una
funzione testimoniale per le nuove generazioni. La soddisfazione di una vita
vissuta fino al suo termine naturale, una vita feconda e conclusasi nella
pace è la massima beatitudine promessa come premio al "giusto".

Un profeta anonimo dell'esilio, volendo delineare un tempo in cui le sorti
di Israele perseguitato sarebbero state capovolte, dirà: ". non ci sarà
vecchio che non porti a pienezza i suoi giorni" (Isaia 65,20). La morte è
vista come un evento naturale verso il quale camminare senza angoscia né
paura, senza per questo negare il decadimento fisico, il venir meno del
calore della vita, l'affievolirsi del corpo e delle sue facoltà fisiche e
psichiche.

Così la vecchiaia riceve dalle indicazioni bibliche, come in tutte le
antiche tradizioni religiose, un avvenire: essa ha un compito "testimoniale",
deve cioè trasmettere la sapienza e il patrimonio umano e religioso
accumulato nel lento scorrere delle vicende umane. L'esperienza degli anni
diviene sapienza come arte del vivere e fa degli anziani persone di
discernimento e capaci di consiglio.

Certo, l'equivalenza tra vecchiaia e sapienza non è per nulla assoluta né
scontata - ci si imbatte anche in anziani privi di senno o incalliti nel
male - ma per la Bibbia l'ultima stagione della vita è caratterizzata sì
dalla diminuzione delle forze ma accompagnata da un arricchimento interiore
e, proprio per questo loro essere fragili e sapienti, i vecchi vanno onorati
e rispettati.

Oggi la nostra esperienza legge la vecchiaia in modo meno pacato e positivo,
soprattutto nelle società industrializzate e urbanizzate che hanno smarrito
quella naturalezza dell'alternarsi delle stagioni e dei cicli vitali. Ora
che ho varcato la soglia della vecchiaia e che vivo da anni attorniato da
gente più giovane di me, ritrovo qualcosa dell'attitudine biblica verso la
vecchiaia nel ricordo degli anziani che ho conosciuto durante l'infanzia e l'adolescenza
nel mio paese natale in Monferrato.

Erano gli anni dell'immediato dopoguerra, nei quali si imboccava con fatica
la strada che avrebbe portato al boom economico: i vecchi avevano
attraversato due guerre mondiali, molti avevano combattuto al fronte,
avevano visto amici e compagni cadere uccisi oppure emigrare in cerca di
fortuna e di lavoro, alcuni avevano perso i figli nella seconda guerra
mondiale o nella lotta partigiana.

Per molti non era certo la vecchiaia serena e tranquilla di chi si gode il
frutto del lavoro di una vita all'ombra della vigna e del fico, attorniato
da figli e nipoti. Forse anche per questo alcune verità emergevano con
semplicità dai loro discorsi sulla soglia di casa o attorno a una tavola
rallegrata da una bottiglia di vino genuino e da qualche fetta di salame.

"Us fadiga a sté al mund": momenti di stanchezza non solo fisica, eventi
tristi che appesantivano l'esistenza trovavano in quel "si fatica a stare al
mondo" espressione e un po' di conforto. Non si è ancora giunti a una
vecchiaia inoltrata, ma si fa strada la consapevolezza nuova del tempo che
passa rapidamente e del fatto che questo scorrere diventa una tragedia.

Dopo i sessant'anni ci si ritrova più fragili, ci si stanca più facilmente e
più in fretta, la vista si affievolisce e il corpo perde agilità. Inizia
così un tempo in cui l'orizzonte finale della propria vita non appare più
così lontano e diventa arduo rimuoverlo dalla mente: il pensiero della fine
incombe, si fa ricorrente, appare ogni volta che si deve prendere una
decisione che riguarda il futuro.

Le reazioni sono diverse, certo, ma tutte riconducibili a quel "us fadiga a
sté al mund" che fa seguito alla grande tentazione dei cinquantenni, il
cinismo; così, se anche si è resistito e non si è ceduto al cinismo, un
segno di questa lotta è rimasto: non si conosce più quell'entusiasmo così
decisivo in passato.

Si fatica a stare al mondo: lo spazio-tempo della vita conosce ormai un
vocabolario proprio, che gli viene applicato con pudore e difficoltà, ma che
a poco a poco si impone. Si paragona l'età alle stagioni dell'anno, e allora
è l'autunno, del quale si scorgono però solo le foglie che cadono, non il
ribollire dei tini colmi di vino; si pensa alle ore del giorno e allora è il
crepuscolo, ma se ne coglie solo la malinconia, non il pacifico ricomporsi
del creato alle soglie della notte.

Ci si consola come si può, con frasi fatte che suonano vuote sotto la loro
superficiale doratura: "Non conta l'età fisica. L'importante è sentirsi
giovani nel cuore.". In realtà, la vecchiaia è una tappa, un cambiamento
della vita, una trasposizione di quel che si è: a vivere la vecchiaia si
impara, così come si impara a camminare. Ci si addentra allora in un'avventura,
che è sì avventura di spoliazione, ma che non contraddice l'irrobustimento
dell'uomo "interiore", dell' "uomo del cuore".

La sera mostra ciò che è stato il giorno, diceva Erasmo, perché ognuno ha la
vecchiaia che si merita. Ma anche questo dato è poi sempre vero? Pregi e
difetti di ciascuno vengono infatti ingigantiti dalla debolezza della
vecchiaia, ma non sempre le vicende umane e le persone che attorniano l'anziano
gli consentono di raccogliere davvero ciò che ha seminato.

Così, poco alla volta si arriva ad ammettere che si è diventati vecchi, si è
entrati nella "terza età", come si usa dire oggi: un'età cui poi, per i più
longevi, ne seguirà un'altra, la "quarta". "Sono vecchio!", diciamo a
malincuore, con una voce che si vorrebbe serena ma che spesso è velata di
malinconia e di sofferenza. Perché è "vita grama per i vegg"! Come ricordava
una canzone di Jacques Brel che cantavo a vent'anni, "i vecchi, i vecchi
tremano, si assopiscono, vanno dal letto alla finestra, poi dalla finestra
alla poltrona, poi dal letto al letto.".

Si ha un bel da dire che la vecchiaia non è una malattia, ma la fragilità
che aumenta, i dolori alla schiena o alle gambe che si fanno sentire,
rendono "grama" questa età, un'età che, grazie alla fine del lavoro e delle
attività, potrebbe costituire un tempo per "godersi la vita", per vivere
liberamente quello che più ci sta a cuore. Fa capolino la solitudine, perché
si percepisce che la "vita" autentica scorre accanto ai vecchi, lasciandoli
ai margini; si fa strada anche la paura della malattia e della dipendenza
che ne deriva, l'angoscia della perdita della memoria: si cominciano a
dimenticare i nomi, le cose da fare.

Ricordo i vecchi del mio paese che si facevano un nodo al fazzoletto per
ricordarsi qualcosa, ma poi nel soffiarsi il naso mormoravano avviliti:
"Ecco, ho fatto il nodo, ma non ricordo più per cosa.". Davvero vita grama
per i vecchi.

Poi si passano i settant'anni e occorre esercitarsi alla pazienza e
cominciare a percepire ogni giorno come regalato, perché l'orologio del
corpo non inganna più nessuno. I movimenti più quotidiani - alzarsi dal
letto, camminare, salire le scale. - si fanno più lenti, pesanti: si
sperimenta cosa significa "restare indietro" quando gli altri avanzano.

Allora ci si tiene in esercizio con qualche passeggiata o con una partita a
bocce, chi abita in pianura rispolvera la bicicletta cercando strade poco
frequentate, ma la rigidità si fa sentire come inseparabile compagna: "A sun
reid", "Sono rigido", è il lamento che accompagna dal mattino alla sera ogni
movimento richiesto. Il corpo è sempre più lento, la psiche pure, mentre il
tempo appare sempre più veloce, si accorcia giorno dopo giorno, come la luce
nei freddi pomeriggi di dicembre.

Il vecchio non sa nemmeno cosa rispondere a chi gli chiede "come va?". Non
può certo dire "bene", ma non vuole neanche lagnarsi, come a volte ha
sentito fare ad altri più vecchi di lui. E allora, "A suma que!", "Siamo
qui!": non stupore in questa affermazione ma piuttosto tanta sapienza. Non
significa tanto "sopravviviamo", ma piuttosto "stiamo ancora al mondo":
"siamo qui!" è l'affermare il presente proprio mentre tutto ciò a cui si
guarda e si può guardare è il passato, il passato che vive nella memoria, il
passato che è il grande patrimonio del vecchio.

Persone ed eventi popolano questo passato e da esso emergono nitidi e forti
i ricordi della fanciullezza, gli anni più lontani, quasi che il vecchio
cerchi il bambino che è in lui: il vecchio ha bisogno del bambino, quello
nascosto in lui e i bambini che gli stanno attorno, segno della generazione
che viene.

Forse oggi la tristezza di molti vecchi è accresciuta propria dalla scarsità
di bambini attorno a loro: un mondo si chiude e non riescono a scorgere le
promesse di quello futuro. I vecchi vivono di ricordi, e nei ricordi si
rifugiano come per stringere l'unica ricchezza che rimane loro.

Contare i giorni diventa un'arte, una maestria, a volte una fatica, ma
diviene un esercizio indispensabile: contare i giorni perché è l'ora di
riconciliarsi con la finitudine della vita, con la quale ci si scontra anche
assistendo alla morte attorno a sé dei pochi coetanei rimasti, delle persone
che erano state compagne di una vita.

"Vengono meno i compagni - dice un proverbio monferrino - e ne appare uno
nuovo: il bastone", trasposizione popolare del famoso enigma della Sfinge:
"Qual è l'animale che al mattino cammina a quattro zampe, a mezzogiorno a
due e alla sera a tre?". Si entra nell' "atrio della morte", uno spazio che
in questi decenni si sarà anche esteso, ma che resta pur sempre l'anticamera
della morte, una situazione in cui l'attesa non è certo più lieve perché più
lunga di qualche anno.

Finché sulle labbra dei vecchi non compare un'altra espressione: "L'è ura d'andé",
"E' ora di andare!". Quella frase che da adulti si diceva ai bambini per
mandarli a letto alla sera, ora da vecchi la si ripete a se stessi perché si
è ormai stanchi di vivere: vivere, infatti, è un mestiere e alla lunga
stanca. "E' ora di andare": rappacificata confessione di chi, seduto con lo
sguardo sfocato, scruta la strada soleggiata fuori dall'uscio di casa o, d'inverno,
il fuoco che crepita nel camino e che non si ha più la forza di rattizzare.

Stanchi anche di chiedere l'aiuto degli altri, di aspettare che vengano a
sostenerci, ad accompagnarci: di loro si ha bisogno, si sa anche che lo
fanno volentieri, eppure non si vuole essere loro di peso. E' proprio ora di
andare!

Questo è quanto riesco a leggere della mia vecchiaia ormai imboccata e della
vecchiaia di quanti ho conosciuto e amato. Come sarà d'ora in poi il mio
percorso? Troverò ispirazione nella speranza cristiana? Oppure, ma non vi è
contraddizione, seguirò il sentiero che ho imparato da giovane alla scuola
dei vecchi della mia terra? E sarà una vecchiaia segnata dalla malattia,
dalle sofferenze, dall'oblio fino all'ottundimento?

Ma il mio compito, il compito di ciascuno di fronte alla vecchiaia che
incalza non è prevederla bensì prepararla, colmando la vita di quanto può
sostenerci fino alla morte.



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