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 Gandhi: cosa intendo per non-violenza
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Inserito il - 23/01/2018 : 11:45:08  Mostra Profilo  Rispondi Quotando
Gandhi: cosa intendo per non-violenza

di Gandhi


Non violenza e codardia si accompagnano male. Posso immaginare un uomo
armato fino ai denti che sia, in cuor suo, un codardo. Il possesso di
armi implica un elemento di paura, se non di vigliaccheria. La vera
non-violenza è invece impossibile ove non si possegga un indomito
coraggio. La non-violenza non deve mai essere usata a mo' di scudo per
la codardia. Essa è un'arma per il valoroso. Non scorgo né eroismo né
sacrificio nel distruggere vite o proprietà, per offesa o per difesa.

La prova del nove della non-violenza è che, in un conflitto
non-violento, non vi sono strascichi di rancore e, alla fine, i nemici
si tramutano in amici. Di ciò ho fatto esperienza in Sudafrica con il
generale Smuts. Questi fu, dapprima, il mio più accanito avversario.
Oggi è il mio amico più affettuoso.

Questo è, in sostanza, il principio della non-collaborazione
non-violenta. Ne consegue che esso deve affondare le sue radici
nell'amore. Il suo scopo non dev'essere quello di punire o di
infliggere ferite all'avversario. Pur non collaborando con lui,
dobbiamo fargli sentire che in noi egli ha un amico, e dobbiamo
tentare di toccargli il cuore rendendogli servigi umanitari ogni volta
che ci è possibile.

La verità (satya) implica amore, e la fermezza (agraha) genera - e
quindi ne è sinonimo - la forza. Perciò ho preso a chiamare satyagraha
il movimento per l'indipendenza dell'India. Vale a dire: una forza che
nasce dalla verità, dall'amore, dalla non-violenza.

Ahimsa è attributo dell'anima e, quindi, deve esser praticato da
chiunque, in ogni faccenda della vita. Se non vien messo in pratica in
ogni settore, non ha alcun valore pratico.

L'ahimsa non è quella cosa rozza che si è voluto far apparire. Non
nuocere ad alcun essere vivente fa, senza dubbio, parte dell'ahimsa.
Però ne è solo un'espressione secondaria. Al principio dell'ahimsa
nuoce qualsiasi pensiero malvagio, nuoce l'indebita fretta, nuocciono
le menzogne, l'odio, il malaugurio, l'invidia. Questo principio viene
altresì violato quando si tiene per sé ciò di cui il mondo ha bisogno.

In un'epoca come questa, in cui la forza bruta detta legge, è quasi
impossibile, per chiunque, credere che qualcuno possa rifiutare la
legge della supremazia della forza bruta. Perciò ricevo lettere
anonime in cui mi si consiglia di non interferire nella campagna della
non-collaborazione, anche qualora da essa nascessero atti di violenza.
Altri vengono da me e, presumendo che io, segretamente, stia tramando
violenza, mi chiedono quando verrà il felice momento in cui le
ostilità violente saranno apertamente dichiarate. Gli inglesi - mi
assicurano costoro - non cederanno mai se non alla violenza, aperta o
clandestina. Altri ancora - mi si informa - credono ch'io sia il più
gran mascalzone vivente in India, poiché non rivelo mai le mie vere
intenzioni, mentre essi non hanno alcun dubbio ch'io, dentro di me,
creda nella violenza al pari di quasi tutti gli altri.

Siccome la dottrina della spada è così radicata nella maggior parte
degli uomini, siccome il successo della non-collaborazione dipende
soprattutto dalla rinuncia a ogni violenza dal principio alla fine, e
siccome le mie tesi al riguardo determinano la condotta di un gran
numero di persone, desidero precisare questi concetti nel modo più
chiaro possibile.
Credo fermamente che, laddove non ci sia da scegliere che tra codardia
e violenza, si debba consigliare la violenza. Perciò, quando il mio
figlio maggiore mi chiese come si sarebbe dovuto comportare qualora
fosse stato presente allorché io, nel 1908, venni aggredito e ridotto
quasi in fin di vita (scappar via e lasciare che mi ammazzassero,
oppure seguire il suo istinto e usar la propria forza fisica per
difendermi), io gli risposi che sarebbe stato suo dovere difendermi,
anche a costo di usare violenza.

Però credo fermamente che la non-violenza sia mille volte superiore
alla violenza, che il perdono sia più virile del castigo. "Il perdono
nobilita il soldato". Ma l'astensione dal castigo equivale al perdono
soltanto allorché si ha il potere di punire; non ha senso, invece,
quando proviene da una creatura impotente. Un topo non perdona il
gatto nel momento in cui non può far altro che lasciarsi sbranare. Io,
perciò, apprezzo il sentimento di quanti reclamano l'esemplare
punizione del generale Dyer e dei suoi pari. Lo farebbero a pezzi, se
potessero. Ma non credo che l'India sia impotente. Non considero me
stesso una creatura impotente. Solo, intendo usare la mia forza e la
forza dell'India per uno scopo migliore.

Non mi si fraintenda. La forza non deriva dalla capacità fisica.
Proviene da un'indomita volontà. Uno zulu medio è in grado di
sopraffare, in qualsiasi momento, un inglese medio, in un
combattimento a corpo a corpo. Però fugge di fronte a un ragazzino
inglese, poiché teme la sua rivoltella o quelli che l'userebbero per
lui. Teme la morte e perde coraggio nonostante la prestanza fisica.
Noi in India potremmo anche renderci conto da un momento all'altro che
centomila inglesi non debbono spaventare trecento milioni di esseri
umani. In questo caso, certo, il perdono significherà il sicuro
riconoscimento della nostra forza. Assieme al perdono illuminato verrà
senz'altro a noi, come un'onda, una gran forza, e allora non sarà più
possibile a un generale Dyer o a un Frank Johnson recare affronto
all'India remissiva. Importa poco che, per il momento, io non riesca a
inculcare il mio principio. Ci sentiamo troppo umiliati, adesso, per
non nutrire rabbia e desiderio di vendetta. Ma non posso astenermi dal
dire che l'India ha tutto da guadagnare rinunciando al suo diritto di
punire. Abbiamo un lavoro migliore da svolgere, una missione più alta
da compiere per il mondo intero.

Non sono un visionario. Mi reputo un idealista pratico. La religione
della non-violenza non è intesa soltanto per i rishi [saggi indù] e
per i santi. È intesa anche per la gente comune. La non-violenza è la
legge della nostra specie, come la violenza è la legge dei bruti. Lo
spirito giace in letargo, nel bruto, ed egli non conosce altra legge
che quella della possanza fisica. La dignità umana richiede che si
obbedisca a una legge più alta: alla forza dello spirito.

Mi son quindi azzardato a proporre all'India l'antica legge del
sacrificio-di-sé. Poiché il satyagraha e le sue diramazioni - la
non-collaborazione e la resistenza civile - non sono altro che nuovi
nomi per la legge della sofferenza. Quei rishi che scoprirono la legge
della non-violenza nel bel mezzo della violenza eran dei geni più
grandi di Newton. Ed eran guerrieri più grandi di Wellington. Benché
esperti nell'uso delle armi, essi ne compresero l'inutilità e
insegnarono a un mondo affranto che la sua salvezza non poteva venire
dalla violenza, bensì dalla non-violenza.

Non-violenza, nella sua condizione dinamica, significa cosciente
sofferenza. Non significa mite sottomissione alla volontà dei malvagi,
ma comporta l'impegno di tutta l'anima a opporsi alla volontà del
tiranno. Operando in nome di questa legge interiore, risulta
impossibile per un singolo individuo sfidare tutto il potere di un
ingiusto impero per salvare il proprio onore, la propria religione, la
propria anima e adoperarsi per la caduta di quell'impero o per la sua
rigenerazione.

Dunque, non chiedo all'India di praticare la non-violenza perché è
debole. Voglio ch'essa la pratichi essendo ben conscia della sua
propria forza, del suo proprio potere. Nessun addestramento alle armi
è necessario per dispiegare questa forza. Si può credere di averne
bisogno perché si pensa di essere soltanto un corpo inerte. Voglio che
l'India si renda conto di avere un'anima che non può perire, ma che è
capace di elevarsi trionfalmente al di sopra di ogni debolezza fisica
e di sfidare il mondo intero.

Qual è il significato di Rama, semplice essere umano, che, aiutato da
un'orda di scimmie, si oppone alla forza insolente di Ravana dalle
dieci teste, il quale si crede al sicuro perché circondato da acque
impetuose, nell'isola di Sri Lanka? Non sta forse a significare la
vittoria della forza spirituale sulla possanza fisica? Però, essendo
un uomo pratico, non aspetterò che l'India scopra da sé l'efficacia
dell'arma spirituale nella lotta politica.

L'India si ritiene impotente e si paralizza di fronte alle
mitragliatrici, ai carri armati e agli aeroplani degli inglesi. E fa
derivare la non-collaborazione dalla sua debolezza. Tuttavia essa
servirà allo stesso scopo, cioè a liberarla dall'oppressione inglese,
dal peso di questa ingiustizia, se un numero sufficiente di persone la
metteranno in pratica.
Io distinguo questo movimento di non-collaborazione dal movimento
indipendentista irlandese, il sinn Fein, poiché il nostro non è
conciliabile in alcun modo con la violenza. Tuttavia invito anche gli
adepti della scuola della violenza a provare invece con la pacifica
non-collaborazione, o resistenza passiva.

Se fallisse, non sarebbe a causa della sua intrinseca debolezza.
Potrebbe fallire per una scarsità di adesioni. Allora il pericolo
sarebbe davvero grave. Gli uomini d'animo nobile - che non posson
tollerare più a lungo l'umiliazione della loro patria - vorranno dare
sfogo alla rabbia. Si voteranno alla violenza. Per quel che ne so io,
periranno però senza liberare se stessi e il Paese dall'oppressione.
Se l'India adottasse la dottrina della spada, potrebbe conseguire una
vittoria momentanea. Allora, però, cesserebbe di essere l'orgoglio del
mio cuore.

Io sono sposato all'India poiché a essa debbo tutto di me. Credo,
assolutamente, che essa abbia una missione nel mondo. Non deve imitare
ciecamente l'Europa. Se l'India accettasse la dottrina della spada, io
verrei messo allora a dura prova. Spero di non venir trovato in
difetto. La mia fede in essa, questa fede vivente trascenderà il mio
stesso amore per l'India. La mia vita è votata a servire l'India
mediante la religione della non-violenza che, secondo me, sta alla
radice dell'induismo.

Frattanto sollecito coloro che non si fidano di me a non disturbare il
pacifico andamento della lotta appena cominciata, incitando alla
violenza perché convinti che io desideri la violenza. Detesto i
sotterfugi, l'insincerità. Si dia modo a questa gente di metter alla
prova la noncollaborazione non-violenta, e ci si accorgerà che io non
ho e non ho mai avuto riserve mentali di sorta.
La forza della non-violenza è di gran lunga più meravigliosa e arcana
delle forze materiali della natura, come l'elettricità. La forza
generata dalla non-violenza è infinitamente maggiore della forza di
tutte le armi inventate dall'ingegno umano.

Sebbene la non-collaborazione sia una delle principali armi
nell'arsenale del satyagraha, non va però dimenticato che non è,
dopotutto, altro che un mezzo per assicurarsi la collaborazione
dell'avversario, in armonia con la verità e la giustizia. Troncare
ogni rapporto con le potenze avversarie non sarà mai, quindi, consono
ai fini del satyagraha, il quale mira invece a trasformare o
purificare quei rapporti.

La disobbedienza civile rientra fra i diritti di qualsiasi cittadino.
Nessuno può rinunciarvi senza cessare di essere uomo. Alla
disobbedienza civile non tiene mai dietro l'anarchia. La disobbedienza
criminale può invece condurvi. Ogni Stato reprime con la forza la
violenza criminale. Perirebbe, se così non facesse. Ma reprimere la
disobbedienza civile equivale a cercar di incarcerare le coscienze.

Non credo nelle scorciatoie violente al successo. Per quanto io ammiri
i nobili motivi e simpatizzi con essi, sono incondizionatamente
avverso ai metodi violenti, anche se al servizio della causa più
giusta. L'esperienza mi ha convinto che un bene permanente non potrà
mai esser frutto di non-verità e di violenza.
La non-violenza implica la volontaria sottomissione alle pene previste
per la non-collaborazione con il male.

Chiudo questo mio scritto suggerendo alcune norme e direttive da
mettersi subito in pratica.

1. Non si devono accettare volontari impreparati per le grandi dimostrazioni.
Pertanto solo i più esperti dovranno porsi alla testa dei cortei.

2. I volontari dovranno avere con sé un opuscolo con le istruzioni generali.

3. Nell'imminenza di una dimostrazione, si dovranno passare in
rassegna i volontari e impartire loro speciali istruzioni.

4. Nelle stazioni, i volontari non dovranno concentrarsi tutti in un
solo punto, presso il comitato di ricevimento, ma dovranno essere
scaglionati qua e là tra la folla.

5. Alle stazioni non dovranno accedere grandi folle. Non farebbero che
intralciare il traffico. C'è altrettanto onore nell'entrare in
stazione, quanto nel restarne fuori.

6. Primo compito dei volontari sarà far sì che i bagagli degli altri
passeggeri non vengano calpestati.

7. I dimostranti non entreranno in stazione molto prima dell'ora
d'arrivo prevista.

8. Si dovrà lasciare un varco per consentire ai passeggeri di
raggiungere il treno.

9. Un secondo corridoio dovrà restare aperto al centro della
dimostrazione, per il passaggio delle personalità.

10. Non si formino catene. È umiliante.

11. I dimostranti non si muovano finché le personalità non abbiano
raggiunto le loro carrozze, o finché non abbiano ricevuto un segnale
convenuto da un volontario autorizzato.

12. Gli slogan nazionali debbono essere prestabiliti e non vanno
lanciati comunque, in qualsiasi momento o tutto il tempo, bensì solo
all'arrivo del treno, allorché le personalità salgono in carrozza, e
poi, durante il corteo, a giusti intervalli.

Non si obietti che, in tal modo, la dimostrazione diverrebbe meccanica
e tutt'altro che spontanea. La spontaneità dipenderà da quanto saranno
nutrite le grida, dalla reazione a esse e dall'atteggiamento generale
dei dimostranti, non già dal gran numero di slogan scomposti né
dall'intensità delle grida. È l'addestramento di cui i partecipanti
danno prova a caratterizzare le dimostrazioni. Un maomettano che in
silenzio prega nella sua moschea non è meno "dimostrativo" di un indù
che, al tempio, produce gran clamore con la voce, con il gong o con
entrambi.

13. Lungo il percorso la folla deve allinearsi e non seguire le
carrozze. Se del corteo fanno parte pedoni, essi debbono prender posto
in silenzio e ordinatamente, e non partecipare o astenersi a loro
piacimento.

14. La folla non dovrà far ressa sulle personalità, ma scostarsi da esse.

15. Chi si trova ai margini della cerchia non dovrà premere in avanti
né opporre resistenza a una pressione in senso contrario.

16. Se vi sono donne in mezzo alla folla, esse vanno protette.

17. Non si dovranno portare tra la folla bambini piccoli.

18. Alle riunioni, i volontari si disperdano tra la folla. Imparino a
far segnali con bandierine o mediante fischietti al fine di
comunicarsi istruzioni, qualora a voce non sia possibile.

19. Non spetta al pubblico mantenere l'ordine. Basta, per questo, che
sia fermo e in silenzio.

20. Soprattutto, ciascuno deve obbedire alle istruzioni dei volontari
senza fare domande.

Il mio amico Shaukat Ali sembra dare la massima importanza alla
violenza e ritenere che uccidere il proprio nemico sia il dharma
dell'uomo. Quindi, egli segue la legge della non-violenza con il cuore
gonfio di odio. Secondo lui, la noncollaborazione è un'arma dei
deboli, inferiore, quindi, alla resistenza attiva. Ciononostante, si è
unito a me perché ha capito che, a parte la non-collaborazione o
resistenza passiva, non v'è alcun altro metodo efficace per tener alto
l'onore della sua fede.

Faccio appello a quanti non hanno fede in me, affinché seguano il mio
amico Shaukal Ali. Non occorre che credano nella purezza delle mie
motivazioni, ma devono chiaramente rendersi conto che violenza e
non-collaborazione non possono andar insieme. Il maggior ostacolo al
lancio di una grande campagna di resistenza passiva è proprio il
timore che da essa si scatenino violenze. Coloro che hanno pronte le
armi debbono metterle da parte fintanto che è in corso la non
collaborazione.

A mio avviso, il giorno in cui la forza bruta dettasse legge in India,
ogni distinzione fra Est e Ovest, fra antico e moderno, verrebbe a
scomparire. Quello sarà il giorno del giudizio, per me. Io sono fiero
di considerare l'India mia patria, poiché ritengo che essa sia in
grado di dimostrare al mondo la supremazia della forza d'animo.
Qualora l'India accettasse la supremazia della forza bruta, non sarei
più felice di chiamarla mia patria. Sono convinto che il mio dharma
non riconosce limiti fra le varie sfere del dovere, né confini
geografici. Prego Dio affinché io possa essere in grado di provare che
il mio dharma non si dà alcun pensiero della mia persona né è limitato
a un campo particolare.

Il satyagraha è una forza che può venir impiegata sia da individui sia
da comunità. Può usarsi sia negli affari politici sia in quelli
domestici. La sua applicabilità universale ne dimostra la permanenza e
l'invincibilità. Può esser usato da uomini, donne e bambini. Non
corrisponde affatto al vero dire che è una forza che possono usare
solo i deboli in quanto non potrebbero rispondere alla violenza con la
violenza.

In questa età di grandi prodigi nessuno dirà che una cosa o un'idea
non vale niente perché è nuova. Dirlo è impossibile, in quanto non
sarebbe consono allo spirito dell'epoca. Oggi si vedono cose di cui un
tempo non ci si sognava neppure, l'impossibile sta diventando sempre
più possibile. Restiamo stupefatti, di continuo, di fronte alle
attuali invenzioni e scoperte nel campo della violenza. Ma io sostengo
che scoperte ancor più meravigliose, un tempo impensate e in apparenza
impossibili, saranno effettuate nel campo della non-violenza.

La non-violenza è la più grande forza a disposizione del genere umano.
È più potente della più micidiale arma che l'ingegno umano possa
inventare. Dobbiamo fare della verità e della non-violenza non materia
di pratica individuale bensì di gruppi, di comunità, di Nazioni.
Questo è comunque il mio sogno. Vivrò e morirò per tentare di
realizzarlo. La fede mi aiuta a scoprire ogni giorno nuove verità.


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