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Buddha a proposito dell'universo e della vita
Il sermone al Venerabile Culamalukyaputta - (monaco buddhista Isi Dhamma)
da it.dhammadana.org
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l sermone al Venerabile Culamalukyaputta
Quando Buddha dimorava nel regno di Savatthi, nel monastero di Jetavana, il Venerabile Culamalukyaputta si pose delle grandi domande, a proposito dell'universo e della vita. E si ripromise di abbandonare il sa?gha se Buddha non fosse stato capace di rispondere ai suoi interrogativi. Andò, quindi, dal Perfetto, per fargliene parte:
«Oh, nobile Buddha! Ci sono dieci domande che vorrei farvi
L'universo è permanente? L'universo è impermalente? L'universo è limitato? L'universo è illimitato? La vita è unificata al corpo? La vita è una cosa distinta? Il corpo è una cosa distinta? Gli esseri continuano a vivere, dopo la morte? Gli esseri cessano di esistere dopo la morte? Si può dire che gli esseri, dopo la morte, né vivono, né non vivono?
Se conoscete la risposta a queste domande, allora rispondetemi! Se non avete una risposta per esse, allora confessate di non saperle risolvere! In questo caso, io lascerò la vostra comunità, per tornare alla vita laica.
— Culamalukyaputta! Mi avete mai chiesto di rispondere a queste domande, per divenire monaco, presso di me?
— Si, nobile Buddha, non vi ho mai chiesto di rispondere a queste domande, per divenire monaco da voi.
— Se voi esigete di sapere le risposte a questi interrogativi, prima di cominciare la pratica del Dhamma, morirete senza avere ottenuto il minimo beneficio. Perché io non risponderò mai ad essi! Per esempio, se qualcuno viene colpito da una freccia avvelenata ed esige di conoscere il nome e la casta dell'arciere, come pure di sapere di quale sostanza è composta la freccia, prima ancora che gliela si estragga, morirà di sicuro. Allo stesso modo, la pratica del Dhamma costituisce l'essenziale; è il solo modo per liberarsi dal ciclo senza fine del sa?sara, e le domande che si pongono restano senza importanza. Quando state pensando che l'universo è permanente, avete cessato di praticare. Quando pensate che non è permanente, similmente non praticate più (...). Che l'universo sia permanente, oppure no (...), esiste dukkha; la vecchiaia, la malattia e la morte. Applicate il Dhamma che vi ho insegnato; studiatelo! Non otterremo nessun vantaggio a domandarci se l'universo è permanente, oppure no (...), né per noi stessi, né per gli altri. Questo ci causerà solo una perdita di tempo. Per tale ragione, praticate quanto siete in grado di sperimentare; praticate per liberarvi dalla sofferenza che vivete ogni giorno! Ho insegnato le quattro nobili verità. Se vi esercitate, in sintonia con queste quattro nobili verità, vi libererete dal sa?sara. Il Venerabile Culamalukyaputta rimase incantato dalle parole del Beato. Per concludere, Buddha aggiunse:
«Preoccupatevi di quanto vi ho insegnato, e non di quello che non ho insegnato!»
Nota: Buddha non voleva mai perdere tempo, nel rispondere a domande, la cui replica non avrebbe portato nessun aiuto alla pratica del Dhamma.Per esempio, egli dice ripetutamente ed implicitamente — quando dà un insegnamento, riguardante le conseguenze delle proprie azioni — che, fino a quando persistono i kilesa (le impurità mentali), la morte è seguita rapidamente da un'altra esistenza. Tuttavia, non parla mai di simili concetti, senza altre finalità che essi stessi.
- La coltivazione di Buddha -
Nel sud del regno di Rajagaha, viveva un bramino contadino di nome Kasi Bharadvaja. Un giorno, questi organizzò una cerimonia di coltivazione nei campi che attorniavano Na?a, il suo villaggio di bramini. Come da tradizione, il bramino Bharadvaja coltivò lui medesimo il campo, davanti alle numerose persone presenti in quel giorno di festa. Secondo quanto si credeva, il gesto propizio del bramino avrebbe sollecitato dei fruttuosi raccolti su terre. In quel momento, Buddha faceva la sua raccolta di cibo. Giunse ai bordi del campo del bramino, con la sua ciotola in mano, radiando i sei colori propri ad un buddha onnisciente. Sorpresi ed ammirati dalla purezza e dalla maestà sprigionate dal Perfetto, tutti girarono lo sguardo verso di lui, non accordando più la propria attenzione al bramino. Essendo molto orgoglioso, quest'ultimo interpellò Buddha, con irritazione:
«Hei, Gotama! Se, come faccio io, lavoraste nei campi, otterreste molta ricchezza. Non è bene mangiare il riso altrui. Nella vita monacale non vi è alcuna dignità; esiste solo il profitto. Io, per provvedere alle mie necessità, lavoro! Fate, dunque, come me; non mendicate! — Oh, Bharadvaja! Non chiedo mai niente a nessuno. Anche io lavoro; lavoro i campi, come voi!
— Non ho mai veduto i vostri campi, né i vostri semi, e neppure i vostri buoi.
— Io lavoro il campo sila (della virtù); pianto i semi saddha, con l'aiuto dei buoi degli otto magga?ga (gli otto elementi indispensabili allo sviluppo della disciplina che permette di giungere alla liberazione dal ciclo delle rinascite e, di conseguenza, della sofferenza), e del giogo pañña. Mi nutro di samatha e di vipassana. Quindi, raccolgo i frutti di magga e di phala (nibbana, la cessazione definitiva della sofferenza). Ecco perché, proprio come voi, io lavoro i campi.» Molto soddisfatto per la risposta del Beato, il bramino Kasi Bharadvaja lo ascoltò, con rispetto, esporre gli otto magga?ga. Quando Buddha terminò, il bramino divenne sotapana. Volle offrire della torta di riso al latte al beato, che rifiutò educatamente, spiegando che non accettava del cibo, ottenuto grazie ai suoi insegnamenti. Preso d'ammirazione per Buddha, il bramino lo invitò, comunque, a trascorrere il vassa nel suo villaggio. Fu così che il Beato dimorò, per i tre mesi del vassa, nel monastero di Dakkhinagiri, offerto dal bramino Kasi Bharadvaja, accanto al villaggio Na?a.
- Il bramino Pañcagga -
C'era una volta un bramino, di nome Pañcagga, poiché offriva sempre il suo riso, innanzitutto, ed in ognuna delle sue fasi preparatorie (dalla falciatura a quando lo serviva nei piatti) a Buddha ed al sa?gha: "pañca " significa "cinque" e "agga " (in questo caso) "in primo luogo". (1) Quando falciava il paddy, prima di utilizzare il riso per sè, andava ad offrirlo al sa?gha. (2). Allorché faceva girare i buoi sul paddy (per recuperare gli ultimi grani), prima usufruire del riso, andava a donarlo al sa?gha. (3) Quando sistemava il riso nei silos, prima di toccarlo, andava ad porgerlo al sa?gha. (4). Quando cucinava il riso nella grande marmitta, prima di usufruirne, ne portava al sa?gha. (5) E quando lo serviva nei piatti, prima di consumarne personalmente, lo offriva ancora al sa?gha. Buddha abitava al monastero di Jetavana, nel regno di Savatthi. Un mattino, avendo visto (tramite i suoi poteri mentali) che questo bramino e la sua sposa erano pronti per la realizzazione del Dhamma, andò a fare la sua colletta di riso da loro. Quando giunse davanti alla loro piccola casa, si fermò, restando, lì, in silenzio. Il bramino Pañcagga non poteva vedere Buddha, perché gli girava il dorso. E stava mangiando. Al contrario, la sua sposa vide il Beato. E pensò, a quel punto: «Se mio marito scorge Buddha, gli offrirà il nostro riso. Se lo fa, dovremo cercarne dell'altro per noi; e non ne ho la voglia.»
Si avvicinò, allora, discretamente al Beato e gli sussurrò all'orecchio:
«Sono desolata, Venerabile Buddha, ma oggi non abbiamo nulla da donare.»
Buddha fece segno di «no» con il capo, restando fermo sul suo posto; ed il fatto fece ridere la bramina. Egli radiò i suoi famosi cinque colori all'interno dell'intera casetta dei bramini. Non appena il bramino lo vide, con grande chiarezza, ed intese anche ridere la sua sposa, le si rivolse, sgridandola:
«Buddha è qui, e voi non mi dite nulla?
Aveva già consumato la metà del suo riso. Volendo offrire il resto del suo pasto a Buddha, gli disse:
«Abitualmente, vi dono il riso, prima di avere cominciato a mangiare. Oggi, ho già iniziato. Posso, comunque, darvi quel che mi resta?
— Pañcagga! Che si tratti di cibo precedente al mangiare, che si tratti di cibo durante il mangiare, o che si tratti del resto del pasto, dopo avere finito, è giusto offrirlo egualmente ai monaci. Questa è la loro pratica; mangiano quanto ricevono, Un monaco non deve fare dei complimenti per il nutrimento che riceve, né criticarlo.
— Oh, nobile Venerabile! Che genere di persone sono i monaci?
— Chi non sviluppa attaccamento alcuno sui nama (coscienze) e sui rupa (materia) è monaco.
A questo punto, Buddha insegnò una gatha ai due bramini, in seguito alla quale essi divennero anagamin.
- Il monaco malato, curato da Buddha -
Buddha effettuava regolarmente un giro per i monasteri, preoccupandosi di controllare che tutto si svolgesse per il meglio, e di sistemare eventuali problemi si potessero manifestare. Come per la maggioranza dei suoi spostamenti, il suo fedele cugino, il Venerabile Ananda, lo accompagnava durante queste ispezioni. Un giorno, in una di esse, il Beato scorse un vecchio monaco malato, che si chiamava Putigatta, il quale era afflitto da un diarrea cronica, e si trascinava lamentosamente, tra i suoi escrementi. Interrogato dal Beato, il Venerabile Putigatta poté rispondergli, malgrado la sua grande debolezza. Gli dichiarò:
«Nessuno si occupa, né bada a me. Non ho più famiglia, e neppure amici.»
Buddha se ne prese subito cura. Lo lavò lui stesso, con dell'acqua calda che gli portò il Venerabile Ananda, e tutti e due lo sistemarono su di una veste, prima che la sua venisse lavata ed asciugata (i monaci utilizzano le loro vesti, come lenzuola). Quando il Beato ebbe dato al monaco ammalato ogni cura necessaria per sollevarlo dal suo dolore, riunì tutti i monaci del monastero, onde rimproverarli per avere abbandonato il loro compagno, senza dargli alcun aiuto. Spiegò loro che risiede nei doveri di ognuno l'occuparsi reciprocamente degli altri, e che il sa?gha è come una famiglia, nella quale nessun membro deve essere tralasciato dagli altri. Quindi, Buddha concluse:
«I monaci che si prendono cura di me, sono coloro che si prendono anche cura dei malati.»
- Il sermone al giovane Singala -
Lungo il cammino del ritorno a Rajagaha, il Beato effettuava la propria colletta del cibo. Quel mattino scorse un uomo con i capelli e gli abiti inzuppati di acqua, che si prosternava umilmente, di fronte alle sei direzioni. Interrogato da Buddha, il giovane, che si chiamava Singala, gli spiegò:
«Oh, nobile Buddha! Faccio sempre così, perché mio padre, proprio poco prima di morire, mi ha dato un'ultima raccomandazione:»Oh, figlio! Ogni giorno, bagnatevi interamente ed inchinatevi verso le sei direzioni!»
— Fate bene a rispettare quotidianamente l'ultima volontà di vostro padre; ma, è opportuno non seguire tale raccomandazione alla lettera. Poiché era moribondo, non ha avuto il tempo di darvela, nei dettagli. Ma, sapeva, comunque, che quando un saggio vi avrebbe visto fare così, ne avrebbe compreso il significato e sarebbe stato in grado di spiegarvelo. Che è questo:
«bagnatevi integralmente» è una metafora che esprime la freschezza di metta, l'amore e la benevolenza, con le quali deve radiare l'intero vostro essere, in ogni situazione.
Quanto alle sei direzioni, esse corrispondono alle persone che è bene rispettare ed onorare:
— l'est, per il padre e la madre; — il sud per i propri insegnanti; — l'ovest, per la propria sposa (per lo sposo, se si è femmina); — il nord, per il resto della famiglia, per i propri amici e per i vicini; — il cielo, per i saggi — i monaci, gli asceti, ecc.; — la terra, per i propri sottoposti.»
Quindi, Buddha insegnò al giovane Singala i doveri di ognuno, nella società — doveri che fanno parte del Singalovada sutta — prima di proseguire:
«Ci sono quattro cose che bisogna accuratamente evitare: 1) uccidere, 2) rubare, 3) il cattivo comportamento sessuale, 3) la menzogna.
Quattro ragioni spingono a commettere delle cattive azioni: 1) la parzialità, o il fatto di venire influenzati, 2) l'ostilità, 3) la stupidità, 4) il timore. sikkhakama etadagga
Esistono sei modi per dilapidare stupidamente la propria ricchezza: 1) bere alcool, oppure usare degli intossicanti, 2) andare in giro, sino a tardi, la notte, 3) trascorrere molta parte del proprio tempo in feste e divertimenti. 4) darsi al gioco, 5) unirsi ad amici nocivi, o pigri, 6) cercare la compagnia di donne estranee alla propria sposa (o di uomini estranei al proprio marito).»
Mentre ascoltava rispettosamente il sermone che Buddha gli indirizzava, il giovane Singala gli confessò:
«Di colpo, mi sono ricordato che, spesso, mio padre mi diceva quanto meraviglioso fosse l'insegnamento di Buddha. Benché mi abbia frequentemente spinto ad ascoltare i vostri insegnamenti, gli fornivo sempre un pretesto per non farlo:» è troppo noioso», «non ho il tempo», «sono troppo stanco», «non ho nessun dono da fare al sa?gha»... Da ora in poi, vi prometto di applicarmi alla raccomandazione di mio padre, nei significati che voi mi avete insegnato. Vogliate considerarmi, da ora in poi, come vostro upasaka!» Il Venerabile Vakkali, ammiratore della bellezza di Buddha
Nel regno di Savatthi, viveva un uomo chiamato Vakkali, che aveva un'illimitata ammirazione per Buddha; ed in modo particolare, verso la sua purezza estetica. Un giorno, egli pensò:
«Abitando in questo villaggio, non ho la possibilità di ammirare la perfetta bellezza di Buddha. Però, se fossi monaco, avrei ampio modo di contemplarla da vicino.»
Fu a questo punto che egli entrò nel sa?gha. Era tanto preoccupato di ammirare l'apparenza del Beato, da non fare altro, durante le sue giornate, negligendo, in tal modo, di consacrarsi alla pratica del Dhamma. Seguiva Buddha nei minimi spostamenti, anche durante la colletta del cibo, come se fosse la sua ombra. Tuttavia, invece di studiare l'insegnamento della realtà, o di allenarsi allo sviluppo della conoscenza, attraverso la visione diretta della stessa, egli si accontentava di restare sempre meravigliato nella contemplazione dell'apparenza del Beato.
Un giorno, Buddha aderì ad un invito di tre mesi, nel regno di Rajagaha, lasciando il Venerabile Vakkali a Savatthi. Il quale si era, oramai, tanto abituato a guardare continuamente Buddha, standogli accanto, da non sopportare l'idea di vivere, senza più vederlo. Si annoiava lungo le giornate, in una profonda malinconia, ed attendeva impazientemente il ritorno di Buddha. Quando trascorsero i tre mesi, e Buddha ritornò, egli constatò che nulla era cambiato nel suo attaccamento, e si rese conto che soltanto un violento choc lo avrebbe spinto a riflettere sul futile carattere dello stesso. Di conseguenza, lo convocò, ai fini di mandarlo via:
«Vakkali! Partitevene da qui ed andate a vivere altrove! Non riceverete il minimo beneficio a guardare questo corpo. Coloro che vedono il Dhamma, vedono me! Coloro che non lo vedono, non mi vedono!» Il Venerabile Vakkali venne tanto oppresso dalla tristezza, che decise di andarsi a gettare dall'alto della montagna Gijjhaki?a. Non appena Buddha, tramite i suoi poteri psichici, lo vide arrivare alla sommità del monte, volle confortarlo, per evitarne il suicidio. Fece apparire, quindi, una radiosa e calda immagine di sé, mentre gli insegnava le quattro nobili verità; ma, quello, era già saltato nel vuoto che circondava l'alta scogliera. Durante la caduta, tutte quante le sue parami pervennero a maturità, mentre egli ascoltava la parola del Perfetto. Divenne arahant in qualche istante e giunse a sviluppare gli abhiñña per tempo, tanto da potere risparmiarsi lo schianto fatale al suolo.
Poco dopo, il Venerabile Vakkali ricevette dal Beato la distinzione particolare della persona con la più forte venerazione per Buddha.
- Il sermone al bramino Akkosa Bharadvaja -
Irritati dalle frequenti integrazioni nel sa?gha, da parte dei bramini del suo clan, il bramino Akkosa Bharadvaja si irritò contro Buddha, proferendo al suo indirizzo dei detti blasfemi e degli insulti virulenti. Sopportando pazientemente le ostili volgarità dei bramino, Buddha gli chiese:
«Supponiamo che dei vostri parenti vi facciano visita e che, però, ripartano senza avere accettato il cibo che voi avevate preparato per essi. Cosa ne succede di questo cibo inutilizzato?
— Evidentemente, resterà a me! Quel che gli altri non accettano, me lo conservo io!
— Io non accetto i vostri grossolani insulti. Di conseguenza, poiché vi ritornano, potete serbarli per voi.»
Quindi, pronunciò un sermone, che spiegava quanto dosa sia vinta da adosa.
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