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 Monismo e dualismo
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Inserito il - 11/07/2016 : 10:29:15  Mostra Profilo  Rispondi Quotando
Monismo e dualismo

Le Chiavi Mistiche dello Yoga

di Guido Da Todi

Capitolo 58:

Non solo mi sento del tutto convinto che l’argomento sia il più complesso
della Strada Metafisica, ma pure quello che maggiormente diviene essenziale
conoscere per acquistare gli attributi che di un discepolo fanno un
iniziato.

Prima di affrontarne le creste maggiori suggerisco di ripercorrere alcuni
concetti filosofici ed esoterici che costituiscono lo schema portante di
ogni aristocrazia concettuale dello spiritualismo.

Monismo e dualismo.

Sono due correnti di pensiero proposte da numerose scuole
storiche, destinate, tuttavia, a confondersi e a riunirsi, una volta che
i suoi appartenenti ne abbiano afferrato i reciproci significati nascosti.

Il monismo afferma che esiste l’oceano, quale vita una. Di conseguenza,
quando si aboliscono le parvenze di movimento esteriore, di onde, con le
quali l’uomo si identifica in un maya costante (abbaglio della vera
fisionomia dell’essenza) viene ribaltato ogni suo sistema
espressivo e percettivo .

Trovandosi in un’illimitatezza universale, della quale fa parte, e
con la quale si identifica, qualunque precedente concezione mentale,
intesa a descrivere lo stato puro e finale dell’essere diviene del tutto
fallibile; ed, anzi, fuorviante.

Non vi è più un io personale; ma, uno stato di equilibrio indicibile, nel
quale non trova posto la descrizione. Una descrizione che – secondo il
monista – servirebbe solo a sbalzarlo, di colpo, fuori dalle armoniche
raggiunte, e nel mondo della incompletezza da cui proviene.

Forse, una contemplazione cosmica inarticolata potrebbe esprimersi come
l’ultimo brandello di essenza negli esseri che affermano di avere raggiunto
la qualità di monista.

Ma, ho incontrato anche dei monisti che allontanavano l’idea di una simile
landa individuale, affermando che a quel punto <ogne lingua deven tremando
muta> e che è impossibile, per il realizzato di codesta scuola, né
immaginarsi, né rappresentarsi un tale ultimo stato: ma, solo, viverlo. E
anche questo <vissuto> per essi era solo un’ipotesi tutta da provare.

Il monista privilegia la Non Forma.

Il dualista, al contrario, segue una via che tende all’assoluto, ma che
vede realizzato pienamente nella Forma manifesta di ogni cosa.

Per il dualista, onda ed oceano sono la medesima cosa. E, se, all’inizio,
l’onda (simbolicamente parlando) non sa di coesistere con l’unità delle
cose, alla fine del sentiero evolutivo realizza questa identificazione; ma,
da una precisa angolazione. Essa continua a mantenere la propria
individualità, e si confronta con gli altri infiniti frammenti del Tutto,
riconoscendo in loro ed in se medesima la qualità assoluta dell’Uno.

Indubbiamente, la prima strada privilegia quel che in lingua indù viene
chiamata Jnana (la Via della conoscenza); anche se tale modalità di
approcciare il Vero si affina e spiritualizza sempre di più – lungo la
ricerca e la sperimentazione – sino a sparire – come abbiamo visto –
completamente, dopo qualche tempo.

Il dualista, invece, incarna la strada chiamata Bakty (la Via della
devozione, o dell’amore). Per lui ogni cosa è Dio; anche se essa non lo sa.

Dov’è che le due strade si incontrano, allora? Dove trovano, esse, un
comune consenso?
È ovvio che se il monista persegue sinceramente la sua strada – magari per
reincarnazioni – egli dovrà cozzare con la legge indiscutibile che forma le
basi del <Libro dei Mutamenti>. Yinn e Yang coesistono sempre. L’uno,
dilatato ed in manifestazione, contiene, comunque, in sé il nucleolo
dell’altro. E la legge dei cicli, lentamente, dopo aver portato in evidenza
lo Yinn, estrae da esso e rende protagonista lo Yang, che, allora ed a sua
volta, fagocita in sé il suo opposto. E la giostra divina dura, così, in
eterno

La conoscenza e l’amore non possono viaggiare su due binari distinti e
separati; e neppure disarticolati.

Il monista, negandosi alla Forma, si auto estinguerà nel suo costante
sofisma intellettuale; e nemmeno si renderà conto di essere un
rappresentante puro di quella mente che si ostina a rinnegare.

Rinnegare qualcosa, oppure difenderla accanitamente (essere mentali, o
voler uccidere la mente)
significa comunque restare legati a ciò, di cui si analizza solo un aspetto.

Giunge sempre un momento in cui, d’altronde, anche il dualista sente
la legittima e naturale necessità di uscire da sotto il pelo dell’acqua, in
cui morbosamente si agita e rifugia (il mondo della Forma) per respirare a
pieni polmoni la sottile brezza di una oggettività e libertà che lo
sleghino, a loro volta, da quello scompagnato e solo aspetto dell’essere.

In aiuto a quanto dico, la più grande lezione, che costituisce il
formidabile puntello d’ espulsione d’ogni ignoranza in materia, è nelle
parole della Bhagavad Gita, che, per quanto mi riguarda, costituisce il
libro da cui ho tratto la liberazione interiore e le indicazioni sovrane
sul destino dell’uomo soggettivo.

Non voglio, stavolta, ripeterne dei versetti e dei comma. Suggerisco solo
ai lettori di prenderlo tra le mani, come, forse, il vangelo più sacro
dell’umanità, e di studiarne i contenuti.

Si dice che sia il karma più benevole che all’individuo possa capitare
durante la propria reincarnazione, quello che lo pone in condizione di
genuflettere il proprio animo al Verbo che si esprime in questo dono degli
Antichi Veda.

Scendiamo, tuttavia, da queste atmosfere di alta rarefazione metafisica
e, al solito, cerchiamo di collocarci nella <giusta strada di mezzo>.

Poniamoci in un terzo punto di vista.

La Non Forma è essa stessa un aspetto della Forma Archetipica. Il monista,
seguendone con tenacia le armoniche, non si rende conto di meditare su uno
degli aspetti inscindibili dell’Essere: Yinn e Yang , Vita e Forma, Monismo
e Dualismo. Ognuno dei quali sicuramente più dilatato dell’altro – in quel
particolare ciclo – ma gravido al suo interno della spora di polarità
opposta, anche se condensata ed apparentemente invisibile; ed a tale spora
inestricabilmente unito.

La Forma, è l’aspetto concreto di quell’entele, di quell’altra sua
faccetta speculare, che ne è l’Aspetto Astratto.

Ecco dove la strada della Mente e quella del Cuore si debbono unire. Nella
consapevolezza che Jnana e Bakty sono i due poli della bilancia cosmica che
l’individuo deve esprimere ed affrontare – in sincronia – per manifestare
la vera perfezione.

Amore e ragione, monismo e dualismo, Jnana e Bakty raggiungono l’armonia
cosmica solo se lo fanno all’unisono; divaricano il sentiero del divenire
se manifestano la propria qualità individuale, senza tenere conto del
proprio coesistente opposto.

Ora, personalmente, la mia nota individuale si accorda alla perfezione con
i monisti.

L’unità delle cose può venire sperimentata da noi tutti. L’illimitato
organismo elastico che è il Tutto non tollera i tentativi dell’uomo di
vedere qualunque separazione in esso.

La visione terrificante che Krishna dona allo sbigottito ed incantato
Arjuna, quando gli mostra il suo Sé, come tutto ciò che esiste, è quella
stessa che occorre ottenere – e, da allora, conservare, quotidianamente –
per raggiungere il primo aspetto della Verità.

Ma, la successiva qualità di sapere <captare e percepire> il magico suono
del Verbo, mentre si manifesta nelle singole cose tutte, ed in ogni
individuo, diviene la nuova <oscillazione> spirituale che ognuno di noi
deve padroneggiare e fare sua, per completare il secondo aspetto della
Verità.

Tuttavia – ed ecco il terzo punto di vista che vorrei approfondire con voi
– esiste anche un fattore di indicibile libertà e gioia che sovente sfugge
ai più.

Dio come Suono.

Non a caso l’India ci ha donato la scienza dei mantrams. Non a caso ci
indica la sacra parola magica:<AUM>, come un suono deciso ed
autonomo, che scorre lungo le corde della Vita planetaria, senza
posa e con ritmo imponente.

Per inciso, voglio accennare al fatto che agli allievi della Self
Realization Fellowship, fondata da
Paramahansa Yogananda, viene, con molta attenzione e vigilanza, insegnato
la pratica di percepire
<il Suono di Dio> nella natura.

Ebbene, solo dopo essersi immersi nel <Canto dell’Uno>, avulso da ogni
aspetto di totalità e di parzialità, di mente e di non mente, che fa
continuamente vibrare le corde di quell’immenso diapason che è la natura
tutta, con i suoi regni ed i suoi misteri cosmici, solo allora si
realizzerà – sperimentalmente – che Dio è anche Musica; presente in ogni
nostra fibra soggettiva e materiale, come anche vibrante, sovrana,
nell’universo.

Gli Avatar insistono a proclamare che si deve <cantare> di continuo il
Nome di Dio. E non stanno a dire che Dio è il Tutto Uno monistico,
oppure essi stessi ne rappresentano l’Incarnazione dualistica.

Essi sanno che il <Sacro Suono> può venire percepito da ognuno, e divenire,
per lui, da allora, la fonte della gioia più assoluta che si possa
immaginare.

Questa è una delle più antiche tradizioni sulla nostra terra, e nessuno
oserebbe continuare le sue dialettiche polemiche, mentre sprofonda gli
occhi nello sguardo di un illuminato, che si trovi immerso pienamente in
Dio, mentre ne canta il Nome Universale.

Tuttavia, come le falene irragionevoli e testarde continuano a
girare attorno alla luce e ad immergersi in essa, così tutti voi – lo
ripeto, tutti voi! – state percependo il Suono di cui parlo.

Di sicuro, molti non se ne rendono, ancora e pienamente, conto.

Ma, come cantava Rabindranath Tagore, vedo tutti voi simili alle <gru> che
egli ricorda in un suo noto poema:

“Il mio amore per Te, Dio, è come uno stormo di gru che vola verso il
cielo….”


(Guido Da Todi)



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