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 La reincarnazione imposta al Dalai Lama
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Inserito il - 31/10/2014 : 11:37:51  Mostra Profilo  Rispondi Quotando
La reincarnazione imposta al Dalai Lama

di Massimo Introvigne

da La Nuova Bussola del 12/9/2014


[Riportiamo un articolo interessante e assai documentato, molto più
chiaro e completo di quanto si possa leggere anche su testi che vanno
per la maggiore, pubblicato da uno dei massimi studiosi italiani di
storia delle religioni: Massimo Introvigne]


L’attenzione di tutti, tra commemorazioni dell’11 settembre e venti di
guerra in Medio Oriente, è giustamente concentrata sui musulmani, ma
quello che sta succedendo negli ultimi giorni tra i buddhisti – 513
milioni di fedeli nel mondo, secondo stime aggiornate al 2014 – è così
singolare da meritare qualche attenzione. In sequenza, abbiamo letto
dapprima domenica scorsa un’intervista del Dalai Lama al quotidiano
tedesco della domenica «Welt am Sonntag», dove afferma che alla sua
morte potrebbe anche non reincarnarsi, così che non ci sarebbe un
nuovo Dalai Lama. In effetti, ogni Dalai Lama è considerato non solo
il successore ma la reincarnazione del precedente, e quando muore i
monaci tibetani di più alto lignaggio vanno alla ricerca di un neonato
in cui, secondo segni che solo loro sanno interpretare, il defunto
Dalai Lama si è reincarnato.

«Le persone che pensano politicamente devono rendersi conto che
l’istituzione del Dalai Lama, dopo quasi 450 anni, dovrebbe aver fatto
il suo tempo», ha detto al giornale tedesco il XIV Dalai Lama, così
che dopo la sua morte potrebbe non essercene un XV. Nulla d’imminente,
peraltro. «Secondo i medici che mi hanno visitato – ha detto
nell’intervista –, arriverò a 100 anni. Stando ai miei sogni a 113. Ma
100, credo, saranno sicuri». Il Dalai Lama ha 79 anni, e afferma
comunque che riesaminerà il problema quando ne avrà 90.

Questione chiusa, dunque, almeno per il momento? Niente affatto.
Mercoledì 10 settembre il Ministero degli Esteri cinese ha diffuso una
nota in cui afferma che la successione del Dalai Lama non può essere
decisa da un solo individuo ma deve «seguire un insieme di procedure
religiose e di costumi storici». «Il titolo di Dalai Lama ha centinaia
di secoli di storia – prosegue la nota firmata da Hua Chun-Ying,
portavoce del Ministero degli Esteri di Pechino –. Il XIV Dalai Lama
ha un’agenda occulta e sta cercando di distorcere e negare la storia,
il che danneggia l’ordine normale del buddhismo tibetano».

A prima vista, sembra una commedia dove ognuno recita la parte
sbagliata. Come ha titolato l’agenzia Reuters, «Pechino ordina al
Dalai Lama di reincarnarsi». Il leader buddhista sembra avere dubbi
sull’opportunità di proseguire la tradizione del «tulku», del lama
reincarnato, che dovrebbe essere un caposaldo della sua dottrina. Il
governo cinese – ufficialmente ancora marxista – non dovrebbe credere
alla reincarnazione, ma si erge a difensore delle «procedure
religiose» e dell’«ordine normale del Buddhismo tibetano» e, nella
sostanza, minaccia il Dalai Lama con un «guai a te se non ti
reincarni».

La matassa si può dipanare, ma prima sono necessarie alcune
precisazioni. Contrariamente a quanto pensano molti occidentali, il
Dalai Lama non è il «Papa» o il capo dei buddhisti. Il buddhismo è
infatti anzitutto diviso in due (o tre) grandi correnti, una più
antica detta «di fondazione» – il termine «hinayana» (piccolo
veicolo), coniato dagli oppositori di questa corrente, non è più usato
nel mondo accademico – e una più recente detta «mahayana» (grande
veicolo). Delle diciotto scuole della corrente «di fondazione»,
divenuta minoritaria, oggi ne sopravvive solo una, quella Theravada,
nata nello Sri Lanka e tuttora maggioritaria in questo Paese oltre che
in Tailandia, Cambogia, Birmania, Laos e Vietnam. Nel resto del mondo
buddhista domina la corrente mahayana, divisa però a sua volta in
moltissime scuole. All’interno del mondo mahayana nasce poi in India,
Tibet e Mongolia, quella che secondo alcuni è una sua parte, secondo
altri una terza grande suddivisione del buddhismo: la corrente
«vajrayana» (veicolo del diamante), fortemente influenzata da
religioni popolari precedenti al buddhismo e dal tantrismo, un vasto
fenomeno che attraversa induismo e buddhismo e che ricerca
l’illuminazione a partire da elementi materiali e visibili, comprese
le raffigurazioni artistiche e (in alcune scuole) l’uso sacro della
sessualità. Fra queste correnti ci sono differenze teologiche
fondamentali, dal buddhismo «di fondazione» austero e filosofico –
tanto che alcuni lo considerano sostanzialmente ateo – fino alle
correnti mahayana e soprattutto vajrayana caratterizzate da un
lussureggiare di divinità, miracoli e profezie.

Anche la corrente vajrayana si frammenta in molte scuole e «sistemi»
rivali. In Tibet coesistono una dozzina di «sistemi» principali. Il
sistema detto Geluk non è il più antico, essendo stato fondato alla
fine del XIV secolo dal lama Tzong Khapa (1357-1419), il cui discepolo
Gendundrup (1391-1474) è considerato il primo Dalai Lama, ma ha un
ruolo politico cruciale perché nel 1642 il V Dalai Lama, con il
sostegno mongolo, s’insedia come massima autorità politica del Tibet.
Da allora, e fino all’invasione cinese del 1950, i Dalai Lama
detengono il potere politico nel Paese himalayano. I Dalai Lama si
considerano la reincarnazione del «bodhisattva» Avalokitesvara, che
rappresenta la grande compassione. I «bodhisattva» sono spiriti
superiori che si reincarnano volontariamente per aiutare l’umanità e
talora personificano attributi del Buddha. Nel XVII secolo il V Dalai
Lama proclama il suo maestro e consigliere Lobsang Chökyi Gyalsten
(1570-1662) quarta incarnazione in Tibet – ce ne sarebbero state altre
tre prima - di un altro «bodhisattva», Amitabha, creando per lui il
ruolo di Panchen Lama, con sede nel monastero di Tashilhunpo, che
rappresenta l’autorità religiosa, mentre la sede del governo e del
Dalai Lama è stabilita a Lhasa. Molti occidentali conoscono la ricerca
da parte dei monaci dei neonati che saranno il nuovo Dalai Lama e il
nuovo Panchen Lama, ma prima dell’arrivo dei cinesi c’erano tremila
lignaggi buddhisti trasmessi per reincarnazione con lo stesso sistema
– quasi tutti maschili – e molti sono continuati nella diaspora
tibetana che si è dispersa per il mondo per sfuggire all’occupazione
cinese.

Da quanto precede emerge che il Dalai Lama non è il capo di tutti i
buddhisti: quelli Theravada ma anche molti della corrente mahayana –
per esempio delle tradizioni giapponesi Zen e Nichiren, diffuse anche
in Italia – lo rispettano per la sua coraggiosa resistenza
all’imperialismo cinese, ma non lo considerano in nessun modo
un’autorità in grado di definire la loro religione. Alcuni dubitano
persino che quello vajrayana sia un vero buddhismo, una posizione
condivisa anche da studiosi occidentali fino alla grande
riabilitazione del buddhismo tibetano – un tempo liquidato come
sincretismo tra buddhismo e tradizioni magiche locali non buddhiste –
nel XX secolo. Il Dalai Lama non è neppure il capo di tutti i
buddhisti tibetani, ma solo del sistema Geluk. E anche all’interno di
questo sistema si sono manifestati scismi. Tuttavia, se religiosamente
le sue credenziali sono ristrette a un singolo «sistema» all’interno
della più piccola delle tre correnti buddhiste, quella vajrayana,
politicamente il Dalai Lama è molto importante, perché rappresenta la
continuità di una monarchia sacra buddhista che ha avuto un grande
ruolo politico e culturale e si è guadagnata anche molte simpatie a
causa della brutalità della repressione cinese.

Come sanno bene i cattolici, il metodo con cui la Cina reprime le
religioni è quello di creare comunità religiose «patriottiche» i cui
dirigenti sono infeudati al Partito Comunista. Quando ha invaso il
Tibet, la Cina non è riuscita a ingraziarsi il Dalai Lama, che ha
preferito l’esilio, ma ha puntato sul X Panchen Lama, che ha
dichiarato di appoggiare l’occupazione cinese. Senonché con la
rivoluzione culturale e l’ostilità alle tradizioni religiose in
genere, anche il X Panchen Lama, per quanto collaborazionista, fu
arrestato e trattato in modo brutale nelle carceri cinesi. Rilasciato,
è morto nel 1989. I monaci leali al Dalai Lama – cui secondo la
tradizione Geluk spetta comunque l’ultima parola su quale neonato sia
la reincarnazione del Panchen Lama defunto – hanno identificato l’XI
Panchen Lama in un bambino chiamato Gedhun. Nel 1995 questo bambino –
che oggi dovrebbe avere venticinque anni – è stato sequestrato dal
governo cinese, il quale continua a sostenere che non è morto, è
andato a scuola e vive tranquillo in Cina sotto falso nome, anche se
dopo la sua sparizione dal Tibet all’età di sei anni nessuno lo ha più
visto. Sempre nel 1995, monaci leali al Partito Comunista cinese hanno
dichiarato che Gedhun non era la reincarnazione del precedente Panchen
Lama e hanno selezionato altri candidati, tra i quali – secondo una
procedura che gli imperatori cinesi avevano già cercato di imporre al
Tibet in secoli passati – l’estrazione a sorte da un’antica urna d’oro
ha determinato chi fosse davvero la reincarnazione del lama defunto
nel 1989. La sorte – o le manovre del Partito Comunista cinese – hanno
prescelto Gyaincain Norbu, che aveva allora sei anni e che i cinesi e
i monaci tibetani filo-cinesi considerano non solo l’XI Panchen Lama
ma il leader di tutto il buddhismo tibetano, se non una delle massime
autorità buddhiste mondiali. Il governo di Pechino, dopo averlo
educato a svolgere questo ruolo, lo promuove in modo molto attivo, ma
la maggioranza dei buddhisti ne diffida.

La vicenda dei due Panchen Lama è la chiave per capire le ultime
dichiarazioni del Dalai Lama, che non si riducono all’intervista al
«Welt am Sonntag», dove è comunque importante l’affermazione secondo
cui nessuna decisione è ancora stata presa e se ne riparlerà tra una
decina di anni. Ad altri giornali il Dalai Lama ha dichiarato che,
qualora decidesse di reincarnarsi – una decisione che, a differenza
delle persone ordinarie, per gli alti iniziati secondo il sistema
Geluk è effettivamente volontaria –, probabilmente lo farebbe in un
neonato occidentale, non tibetano. La storia sarebbe simile a quella
del film del 1993 di Bernardo Bertolucci «Piccolo Buddha», ma il punto
è che i cinesi avrebbero molte più difficoltà a far sparire un piccolo
Dalai Lama americano o europeo di quante ne ebbero nel rapire l’XI
Panchen Lama nel 1995.

Il Dalai Lama e i suoi consiglieri hanno espresso più volte la
preoccupazione che proprio la vicenda del Panchen Lama potrebbe
ripetersi per il futuro Dalai Lama. Quando il Dalai Lama muore,
l’ultima parola su quale neonato ne sia la reincarnazione spetta al
Panchen Lama. Ma di Panchen Lama – a meno che quello riconosciuto dal
Dalai Lama e rapito dai cinesi diciannove anni fa, Gedhun, sia morto –
ce ne sono due. Morto il Dalai Lama, i cinesi sosterrebbero che alla
fine su quale neonato sia la sua nuova reincarnazione la decisione
spetta al «loro» Panchen Lama, Gyaincain Norbu, con la conseguenza che
il piccolo XV Dalai Lama sarebbe anche lui allevato dal Partito
Comunista cinese e diventerebbe una sua creatura.

Il XIV Dalai Lama, quello attuale, non può «nominare» un nuovo Panchen
Lama alternativo a Gyaincain Norbu. Per i suoi seguaci, la
reincarnazione è una cosa seria e fino a che non c’è la prova che il
«vero» Panchen Lama, Gedhun, sia defunto ovviamente non si può cercare
la sua reincarnazione. Se il Dalai Lama morisse, e il Panchen Lama non
ci fosse o fosse impossibilitato a pronunciarsi – per i Geluk leali al
Dalai Lama quello di Pechino, Gyancain Norbu, è un Panchen Lama
fasullo e non conta – spetterebbe ad altri monaci l’ultima parola
sull’identificazione del nuovo Dalai Lama. Il problema è che, sotto il
Dalai Lama e il Panchen Lama, quella della gerarchia fra i tremila
lignaggi buddhisti tibetani trasmessi per reincarnazione non è una
scienza esatta, e chi sia più alto in grado è a sua volta oggetto di
contenzioso fra il Dalai Lama e i cinesi, per motivi non tanto storici
ma politici, ciascuno favorendo i lignaggi che si sono schierati per
l’uno o l’altro campo. Comunque sia, alla morte dell’attuale Dalai
Lama è certo che i cinesi affermerebbero che spetta al «loro» Panchen
Lama, Gyancain Norbu, identificare il nuovo Dalai Lama, sceglierebbero
un neonato e comincerebbero a educarlo a loro uso e consumo.

Il XIV Dalai Lama non può impedire che questo accada. Ma dichiarando
che forse non si reincarnerà – ripetiamolo, come alto iniziato sarà
libero di decidere nell’aldilà se reincarnarsi o no, una libertà che i
comuni mortali secondo la sua versione del buddhismo non hanno –, o
magari si reincarnerà in un bel neonato figlio di buddhisti americani
o europei, prepara la strada perché i suoi seguaci possano dichiarare
ad alta voce che il XV Dalai Lama che sarà presentato al mondo dai
comunisti cinesi sarà fasullo.



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