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 Crisi finanziaria, cortisolo stimola pessimismo
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Inserito il - 19/02/2014 : 10:44:37  Mostra Profilo  Rispondi Quotando
Crisi finanziaria, il cortisolo stimola il pessimismo

18 febbraio 2014

Quando una crisi finanziaria si prolunga, gli alti livelli di cortisolo - l'ormone dello stress - nel sangue degli operatori diventano cronici, favorendo un pessimismo irrazionale che influenza la capacità di correre rischi. Lo rivela un nuovo studio, suggerendo un possibile ruolo dei fattori fisiologici nell'andamento dei mercati (red)

lescienze.it

Quando in Borsa il listino sale, tra gli operatori si diffonde l'entusiasmo, ma quando le quotazioni scendono è il pessimismo a farla da padrone e nessuno ha voglia di rischiare. Nella tradizionale metafora, questi due diversi atteggiamenti vengono rappresentati, rispettivamente, come il momento del “toro” e quello dell'“orso”.

Secondo un nuovo studio pubblicato sui “Proceedings of the National Academy of Sciences” a firma di Narayanan Kandasamy e colleghi dell'Università di Cambridge, nel Regno Unito, la fase dell'orso è favorita anche da un inspettato fattore fisiologico: l'alto livello di cortisolo, l'ormone dello stress, nel sangue degli operatori di Borsa.

Secondo i risultati dello studio infatti, quando questi alti livelli diventano cronici, come nel caso delle prolungate crisi finanziarie, il cortisolo favorisce il prevalere di un pessimismo irrazionale, più accentuato di quello giustificato dalle condizioni del mercato.

Il cortisolo è un ormone secreto dalle ghiandole surrenali in risposta allo stress fisico innescato da input ambientali, e i suoi livelli aumentano nelle situazioni d'incertezza, quali appunto quelle di volatilità dei mercati finanziari. La sua funzione è di preparare l'organismo a reagire, rendendo disponibile il glucosio necessario allo sforzo muscolare, e supportando altre funzioni degli apparati digestivo e riproduttivo e del sistema immunitario.

L'innalzamento dei valori sanguigni di cortisolo ha dunque un forte valore adattativo; quando però lo stress diventa cronico, l'effetto della permanenza costante del cortisolo è negativo, poiché diminuisce le capacità cognitive, aumenta l'ansia e infine può innescare uno stato depressivo.

In un precedente studio su operatori della City di Londra, sono stati osservati incrementi fino al 68 per cento dei livelli di cortisolo durante un periodo di due settimane di estrema volatilità del mercato dei titoli. In quest'ultima ricerca, queste rilevazioni sul campo sono state confrontate con alcuni test condotti in laboratorio, al fine di verificare se il livello di cortisolo avesse un effetto sull'attitudine a prendere dei rischi.

Nel corso dei test, è stato somministrato cortisolo per otto giorni a un gruppo di 36 volontari (20 uomini e 16 donne) di età tra i 20 e i 36 anni, incrementando il livello sanguigno dell'ormone del 68 per cento, cioè fino ad arrivare agli stessi livelli riscontrati negli operatori londinesi. I volontari hanno poi partecipato a una serie di simulazioni in cui occorreva rischiare una certa somma di denaro per avere una ricompensa, valutando il margine di rischio.

Inizialmente il picco del livello di cortisolo ha avuto solo un effetto lieve; con il passare del tempo, però, gli alti livelli dell'ormone hanno portato a una drastica diminuzione, pari a circa il 44 per cento, nell'attitudine a correre rischi.

Questo dimostra che esiste un meccanismo fisiologico preciso che influenza la capacità di prendere decisioni che comportano una valutazione del rischio quando nel soggetto vi sono alti livelli di cortisolo. Di conseguenza, gli operatori di mercato potrebbero mostrarsi eccessivamente prudenti proprio nel momento in cui l'economia avrebbe invece bisogno di decisioni coraggiose.

Il contributo della fisiologia all'atteggiamento nei confronti dei rischi, suggeriscono gli autori, potrebbe quindi rappresentare un'ulteriore fonte di instabilità dei mercati, finora ignorata dagli economisti, dagli esperti di gestione del rischio e dai responsabili delle istituzioni finanziarie.

http://www.pnas.org/cgi/doi/10.1073/pnas.1317908111


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