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 Il mistero di Giordano Bruno
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Inserito il - 11/04/2013 : 11:01:19  Mostra Profilo  Rispondi Quotando
Il mistero di Giordano Bruno

a cura di Iniziazione Antica

tratto da esonet.org


Giordano Bruno nacque a Nola, presso Napoli, nel 1548, da una famiglia
di modeste condizioni. Il padre Giovanni era un militare di
professione e la madre Fraulissa Savolino apparteneva ad una famiglia
di piccoli proprietari terrieri. Gli fu imposto il nome di battesimo
di Filippo. Compì i primi studi nella città natale, da lui molto amata
e spesso ricordata anche nei lavori più tardi, ma nel 1562 si trasferì
a Napoli dove frequentò gli studi superiori e seguì lezioni private e
pubbliche di dialettica, logica e mnemotecnica presso l'Università.
Nel giugno 1565 decise di intraprendere la carriera ecclesiastica ed
entrò, col nome di Giordano, nell'ordine domenicano dei predicatori
nel convento di S. Domenico Maggiore. Si fa rilevare come l'età di 17
anni sia da considerare piuttosto elevata, nel contesto, per decisioni
del genere. Nel convento cominciò subito a manifestarsi il contrasto
tra la sua personalità inquieta, dotata di viva intelligenza e voglia
di conoscere e la necessità di sottostare alle rigorose regole di un
ordine religioso: dopo circa un anno era già accusato di disprezzare
il culto di Maria e dei Santi e corse il rischio di essere sottoposto
a provvedimento disciplinare.

Percorse peraltro rapidamente i vari gradi della carriera: suddiacono
nel 1570, diacono nel 1571, sacerdote nel 1572 (celebrò la sua prima
messa nella chiesa del convento di S. Bartolomeo in Campagna ),
dottore in teologia nel 1575. Ma contemporaneamente allo studio serio
e profondo dell'opera di S. Tommaso non rinunciò a leggere scritti di
Erasmo da Rotterdam, rigorosamente proibiti e la cui scoperta causò
l'apertura di un processo locale a suo carico, nel corso del quale
emersero anche accuse di dubbi circa il dogma trinitario. Era il 1576
e l'Inquisizione aveva ormai da tempo dato clamorosi esempi di rigore
e di efficienza per cui il B., temendo per la gravità delle accuse,
fuggì da Napoli abbandonando l'abito ecclesiastico.

Ebbe così inizio la serie incredibile delle sue peregrinazioni,
durante le quali si mantenne impartendo lezioni in varie discipline
(geometria, astronomia, mnemotecnica, filosofia, etc.).Nell'arco di
due anni (1577-1578) soggiornò a Noli, a Savona, a Torino, a Venezia e
a Padova dove, su suggerimento di alcuni fratelli domenicani e pur in
mancanza di una formale reintegrazione nell'ordine, rivestì l'abito.
Dopo brevi soste a Bergamo e a Brescia, alla fine del 1578 si diresse
verso Lione ma, giunto presso il convento domenicano di Chambery, fu
sconsigliato di fermarsi in quella città di confine con i paesi
riformati e soggetta a particolari controlli, per cui decise di
recarsi nella non lontana Ginevra, la capitale del calvinismo.

Qui venne accolto da Gian Galeazzo Caracciolo marchese di Vico, esule
dall'Italia e fondatore della locale comunità evangelica italiana.
Deposto di nuovo l'abito e dopo una esperienza di "correttore di prime
stampe" presso una tipografia, il B. aderì formalmente al calvinismo e
fu immatricolato come docente nella locale università (maggio 1579).
Già nell'agosto però, avendo pubblicato un libretto in cui
stigmatizzava il titolare della cattedra di filosofia evidenziando ben
venti errori nei quali costui sarebbe incorso in una sola lezione, fu
accusato di diffamazione e quindi arrestato, processato e convinto a
pentirsi sotto pena di scomunica.

Il B. ammise la sua colpevolezza ma dovette lasciare Ginevra, non
senza conservare in sé un forte risentimento. Quasi per reazione si
recò allora a Tolosa, in quegli anni baluardo dell'ortodossia
cattolica nella Francia meridionale, dove cercò, senza ottenerla,
l'assoluzione presso un confessore gesuita, ma poté comunque ottenere
un posto di lettore di filosofia nella locale università e per due
anni circa commentò il "De anima" di Aristotele. Nel 1581 lasciò anche
Tolosa, dove si profilava una recrudescenza delle lotte religiose tra
cattolici e ugonotti e si recò a Parigi dove tenne, in qualità di
"lettore straordinario" (quelli "ordinari" erano tenuti a frequentare
la messa, cosa a lui interdetta come apostata e scomunicato) un corso
in trenta lezioni sugli attributi divini in Tommaso d'Aquino. La
notizia del successo del corso pervenne al re Enrico III al quale B.
dedicò subito dopo (1582) il suo "De umbris idearum" con l'annessa
"Ars memoriae" ottenendo la nomina a "lettore straordinario e
provvisionato".

L'appartenenza al gruppo dei "lecteurs royaux" gli consentiva una
certa autonomia anche nei confronti della Sorbona, della quale non
mancò di criticare il conformismo aristotelico. E' questo un periodo
di grande fecondità nella produzione filosofica e letteraria del B.,
che pubblica in breve successione il "Cantus circaeus", il "De
compendiosa architectura et complemento artis Lullii" e "Il
Candelaio". Con il favore del re divenne "gentilomo" (ma ben presto
apprezzato amico) dell'ambasciatore di Francia in Inghilterra Michel
de Castelnau, che raggiunse a Londra nell'aprile del 1583, e grazie al
quale frequentò la corte della "diva" Elisabetta. Continuò qui a
pubblicare opere importanti: "Ars reminiscendi", "Explicatio triginta
sigillorum" e "Sigillus sigillorum" in unico volume e subito dopo la
"Cena delle ceneri", il "De la causa, principio et uno", il "De
infinito, universo et mondi" e lo "Spaccio della bestia trionfante".
Nell'anno seguente, sempre a Londra, diede alle stampe "La cabala del
cavallo pegaseo" e il "Degli eroici furori".

Quest'ultima opera, al pari dello Spaccio, è dedicata a sir Philip
Sidney, nipote di Robert Dudley conte di Leicester. Alcuni di questi
testi risentono di polemiche con l'Università di Oxford e con una
parte dell'aristocrazia inglese. Venuto a contatto con la famosa
università oxoniana, sospinto dall'irruenza del suo carattere, durante
un dibattito mise in difficoltà, senza troppi riguardi, uno stimato
docente: John Underhill, e restò così inviso a una parte dei suoi
colleghi che non mancarono di manifestare in seguito la loro
animosità. Ottenuto infatti, dopo alcuni mesi, l'incarico di tenere
una serie di conferenze in latino sulla cosmologia, nelle quali difese
tra l'altro le teorie di Niccolò Copernico sul movimento della terra,
fu accusato di aver plagiato alcune opere di Marsilio Ficino e
costretto a interrompere le lezioni. Ma al di là dei risentimenti
personali, confliggevano con la temperie culturale e religiosa inglese
del tempo alcune idee di fondo del B., quali appunto la sua cosmologia
ed il suo antiaristotelismo. L'episodio del giorno delle ceneri del
1584 (14 febbraio) è significativo: il B. era stato invitato dal
nobile inglese Sir Fulke Greville ad esporre le sue idee
sull'universo.

Due dottori di Oxford presenti, anziché opporre argomento ad
argomento, provocarono un acceso diverbio ed usarono espressioni che
il B. ritenne offensive tanto da indurlo a licenziarsi dall'ospite. Da
questo fatto nacque "La cena delle ceneri" che contiene acute e non
sempre diplomatiche osservazioni sulla realtà inglese contemporanea,
attenuate poi, anche per la reazione di alcuni che si sentivano
ingiustamente coinvolti in tali giudizi, nel successivo "De la causa,
principio et uno". Nei due dialoghi italiani, Bruno contrasta la
cosmologia geocentrica di stampo aristotelico-tolemaico, ma supera
anche le concezioni di Copernico, integrandole con la speculazione del
"divino Cusano". Sulla scia della filosofia cusaniana, infatti, il
Nolano immagina un cosmo animato, infinito, immutabile, all'interno
del quale si agitano infiniti mondi simili al nostro. Tornato in
Francia a seguito del rientro del Castelnau, il B. si occupò di una
recente scoperta di Fabrizio Mordente, il compasso differenziale, per
presentare la quale scrisse - su invito dell'inventore - una
prefazione in latino nella cui stesura prevalevano talmente le
applicazioni che il B. faceva dello strumento per avvalorare le sue
tesi filosofiche sul limite fisico della divisibilità, da oscurare o
ridurre a un fatto "meccanico" l'invenzione.

Offeso, il Mordente si affrettò a comprare tute le copie disponibili e
le distrusse. Bruno rinfocolò la polemica pubblicando un dialogo dal
titolo e dal tono sarcastico "Idiota triumphans seu de Mordentio inter
geometras deo" che indirettamente rese più difficile la sua permanenza
a Parigi, essendo il Mordente un cattolico ligio alla fazione del duca
di Guisa, che di li a poco avrebbe raggiunto il massimo della sua
parabola ascendente, mentre il B. ribadiva la sua fedeltà ad Enrico
III. Reazioni negative suscitarono di li a poco a Cambrai le tesi
fortemente antiaristoteliche contenute nell'opuscolo "Centum et
viginti articuli de natura ed mundo adversos peripateticos" discusse a
nome del maestro dal suo discepolo J. Hennequin. L'intervento critico
di un giovane avvocato che B. sapeva appartenere alla sua stessa parte
politica, convinsero il filosofo nolano che la permanenza a Parigi non
era ulteriormente possibile. Di nuovo ramingo per l'Europa, il B.
approda nel giugno 1586 a Wittemberg, in Germania, dove insegna per
due anni nella locale università come "doctor italus", al termine dei
quali si congeda (anche per il prevalere in città della parte
calvinista) con una "Oratio valedictoria" con la quale ringrazia
l'università per averlo accolto senza pregiudizi religiosi. L'orazione
contiene anche un caloroso elogio di Lutero per il suo coraggio
nell'opporsi allo strapotere della Chiesa di Roma che ha grande valore
come difesa della libertà religiosa ma non rinnega i convincimenti
critici del B. circa la dottrina luterana rilevabili in altre opere
(specialmente "Cabala" e "Spaccio"). Gli "eroici furori" sembravano al
B. incompatibili con la paolina teologia della croce.

Dopo un breve soggiorno nella Praga di Rodolfo II, cui dedicò gli
"Articuli adversos mathematicos", alla fine del 1588 si reca a
Helmstedt dove, per poter insegnare nella locale "Accademia Iulia"
aderisce al luteranesimo. Ma i problemi di fondo rimangono: dopo
nemmeno un anno è scomunicato dal locale pastore Gilbert Voet per
motivi non ben chiariti e che il B. sostiene fossero di natura
privata. E' in questa città comunque che vennero pubblicate gran parte
delle opere c.d. "magiche": "De magia , De magia mathematica", "Theses
de magia", ecc. Il 2 giugno 1590 il B. giunge a Francoforte dove
chiede ma non ottiene il permesso di soggiorno e rimane precariamente
ospitato in un convento di carmelitani. Pubblicati tre poemi latini
(De triplice minimo, De monade, De innumerabilis) e dopo alcuni mesi
di permanenza a Zurigo dove tiene lezioni di filosofia, torna a
Francoforte dove nella primavera del 1591 viene raggiunto da due
lettere del nobile veneziano Giovanni Mocenigo che lo invitano a
Venezia per insegnargli l'arte della memoria. I motivi per i quali B.
si decise ad accettare l'invito, con tutti i rischi connessi ad un
rientro in Italia, sono tuttora dibattuti tra gli studiosi.
Probabilmente a ragione, Michele Ciliberto è convinto che
convergessero in questa scelta una pluralità di cause.

Scomunicato dalle chiese riformate non meno che dalla cattolica, in
rotta con gli ambienti puritani e con la fazione allora dominante in
Francia, era isolato e indesiderato a livello europeo. Aveva fiducia
nella tradizionale autonomia della Repubblica veneta (dove di fatto
sopravvivevano circoli aristocratici orientati in senso "liberale")
rispetto al Papa, ed aspirava alla cattedra di matematica
dell'università di Padova, allora vacante, che sarà poi di Galileo
Galilei. A queste considerazioni, peraltro, il Ciliberto ne aggiunge
un'altra, direttamente connessa con gli ultimi raggiungimenti della
filosofia del nolano: una sorta di forte autocoscienza, di vocazione
in senso riformatore, quasi si sentisse un "Mercurio mandato dagli
dei" per diradare le tenebre del presente. Una cosa, rileva ancora
Ciliberto, B. non aveva previsto: "che razza di uomo fosse il
Mocenigo" (Giordano Bruno, cit. pagg. 259 sgg.). Comunque sia, a fine
marzo 1592 l'inquieto pellegrino giunge in casa Mocenigo a Venezia.
Dopo alcuni mesi il patrizio veneziano, forse insoddisfatto nella sua
aspettativa di mirabolanti tecniche magico- mnemoniche, forse anche
indispettito per il carattere indipendente del B. che mal si adattava
alla condizione di "famiglio", specialmente di una persona così
insipiente (egli si apprestava tra l'altro ad andare a Francoforte per
far stampare libri e continuava a sperare in una cattedra a Padova),
contravvenendo alle più elementari regole dell'ospitalità, rinchiuse
B. nelle sue stanze e lo denunciò alla locale Inquisizione asserendo
di averlo sentito profferire bestemmie e frasi eretiche. Dopo un paio
di mesi peraltro il processo, subito iniziato, si presentava in modo
abbastanza favorevole al B., che si era difeso sostenendo di aver
formulato ipotesi filosofiche e non teologiche e che per quanto
riguardava le cose di fede si rimetteva pienamente alla dottrina della
Chiesa chiedendo perdono per qualche frase sconsiderata che potesse
aver pronunciato. Ebbe inoltre attestazioni favorevoli o per lo meno
non ostili da parte di diversi testimoni del patriziato veneto. Quando
tutto faceva sperare in una prossima assoluzione, giunse
improvvisamente da Roma la richiesta del trasferimento del processo al
tribunale centrale del S. Uffizio.

La prima risposta del senato, geloso custode dell'autonomia della
Serenissima, fu negativa, ma dietro le insistenze vaticane, nella
considerazione che l'inquisito non era cittadino veneziano e che il
suo processo era iniziato prima del suo arrivo nella città lagunare
(ci si riferiva ai fatti del 1575) giunse alla fine il nulla-osta e
nel febbraio 1593 il gran peregrinare del B. terminò in una cella del
nuovo palazzo del S. Uffizio, fatto costruire da Pio V nei pressi di
Porta Cavalleggeri. Del processo, che si protrasse per ben sei anni e
durante il quale per una volta almeno si ricorse con ogni probabilità
alla tortura, ci rimane una "sommario", ritrovato stranamente
nell'archivio personale di Pio IX e pubblicato da A. Mercati nel 1942.
Si tratta quasi certamente di una sintesi compilata ad uso dei
giudici, per consentire loro una visione d'insieme che non era facile
avere nella gran congerie dei documenti originali. Un fondamentale
studio di questo estratto è contenuto nel libro di L. Firpo "Il
processo di Giordano Bruno", Napoli, 1949, al quale si rinvia per i
particolari drammatici e significativi dell'intricato procedimento
che, oltre a fornire numerosi dati sulla vita del B., mostra il
progressivo sgretolamento della sua tesi difensiva della separatezza
tra il piano filosofico (sul quale, soltanto, lui asseriva di aver
speculato) e quello teologico, che non gli interessava. Decisivo al
riguardo fu l'ingresso nel tribunale nel 1597 del teologo gesuita
Roberto Bellarmino, chiamato ad esaminare gli atti processuali e
soprattutto le opere a stampa per enuclearne il contenuto eterodosso.
Quando il nolano, che pure durante il processo aveva cercato di
dissimulare, attenuare e talvolta anche accettato di ripudiare talune
sue posizioni in più aperto conflitto con la dottrina cattolica si
trovò di fronte alla necessità - per salvarsi - di rifiutare in blocco
le sue idee, giudicate radicalmente incompatibili con l'ortodossia
cristiana, si irrigidì in un fermo e sprezzante rifiuto e fu la fine.
Il 20 gennaio 1600 Clemente VIII, considerando ormai provate le accuse
e rifiutando la richiesta di ulteriore tortura avanzata dai cardinali,
ordinò che l'imputato, "eretico impenitente", pertinace , ostinato",
fosse consegnato al braccio secolare.

Ciò significava, nonostante la presenza nella sentenza della solita
ipocrita formula che invocava la clemenza del Governatore, la morte
per rogo. L'8 febbraio la sentenza fu letta nella casa del Card.
Madruzzo e fu allora che il B., come riferisce un attendibile
testimone oculare (lo Schopp) rivolto ai giudici pronunciò la famosa
frase "Forse avete più paura voi che emanate questa sentenza che io
che la ricevo" (trad. dal latino). Il successivo giovedi 17 febbraio
1600 - anno santo - venne condotto a Campo de' Fiori con la lingua in
giova" cioè con una mordacchia che gli impediva di parlare e qui,
spogliato nudo e legato a un palo venne bruciato vivo ostentatamente
distogliendo lo sguardo da un crocefisso, del quale stava condividendo
la sorte ma che gli volevano far apparire come carnefice.

Aveva messo in pratica e purtroppo sperimentato sulla sua pelle una
considerazione di molti anni prima e cioè che "dove importa l'onore,
l'utilità pubblica, la dignità e perfezione del proprio essere, la
cura delle divine leggi e naturali, ivi non ti smuovi per terrori che
minacciano morte" (Dialoghi Ital. a cura di G. Gentile Firenze 1985
pp. 698-99). Nel sommario del processo ci sono tramandati i capi
d'accusa (24) ma non quelli ritenuti provati nella sentenza, che
peraltro ci sono così riferiti dallo Schopp, a memoria:

1. Negare la transustanziazione;
2. Mettere in dubbio la verginità di Maria;
3. Aver soggiornato in paese d'eretici, vivendo alla loro guisa;
4. Aver scritto contro il papa lo "Spaccio della bestia trionfante";
5. Sostenere l'esistenza di mondi innumerevoli ed eterni;
6. Asserire la metempsicosi e la possibilità che un anima sola informi
due corpi;
7. Ritenere la magia buona e lecita;
8. Identificare lo Spirito Santo con l'anima del mondo;
9. Affermare che Mosé simulò i suoi miracoli e inventò la legge;
10.Dichiarare che la sacra scrittura non è che un sogno;
11 .Ritenere che perfino i demoni si salveranno;
12.Opinare l'esistenza dei preadamiti;
13.Asserire che Cristo non è Dio, ma ingannatore e mago e che a buon
diritto fu impiccato;
14.Asserire che anche i profeti e gli apostoli furono maghi e che
quasi tutti vennero a mala fine.

Di tali errori il quarto risulta manifestamente infondato essendo lo
"Spaccio" piuttosto antiluterano che antipapista; le volgari invettive
contro Cristo, i profeti e gli apostoli dei nn. 13 e 14 sono
evidentemente echi di sfoghi contingenti di una persona esasperata.
Dove il contrasto con l'Istituzione appare insanabile è piuttosto con
il nucleo centrale della dottrina del B., adombrato nei punti 5, 6 e
8.

Non è qui il caso di approfondire il sistema filosofico del nolano, ma
il solo pensare che la terra, da centro di un limitato universo,
oggetto specifico e privilegiato dell'azione creatrice di Dio, diventi
un minuscolo puntolino in un universo infinito e tra mondi infiniti;
che tale universo è pervaso e vivificato da uno spirito divino
immanente; che nel continuo trasformarsi della vita anche le anime,
immortali, informano corpi diversi, ecc. rendeva le Scritture, Cristo,
la Vergine, i profeti e i dogmi come imperfettissime ombre di una
realtà che la filosofia mostrava ben più grande, e tutt'al più utili a
tenere quieti i popoli. Probabilmente le idee di Bruno non sarebbero
mai riuscite a far presa sulle masse, a sollecitare scismi
lontanamente paragonabili a quello luterano; ma insomma di trattava,
in un certo senso, di un tentativo di sostituire una nuova "summa"
sull'universo a quella tradizionale di S. Tommaso. E questo fu
considerato un pericoloso esempio, un attentato alla supremazia della
teologia sulla filosofia, della religione sulla ragione

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