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Inserito il - 12/07/2012 : 10:53:19
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Esperienze con Paramahansa Yogananda
di Roy Eugene Davis
dal libro "God has given us every good thing"
Traduzione di Furio kriyayoga.it
....Notai, quando ero con il Maestro, che egli condivideva le cose con i discepoli in base alle loro capacità di ricevere. Con me, parlava sempre di Dio e dei maestri, del vero scopo della vita, e dell'importanza della fermezza e della dedizione al percorso. Egli dava nuova vita alle mie capacità dell'anima, mi arricchiva la mente e rinforzava la mia fede. Mi diceva che ero destinato a stare con lui, e che il mio futuro sarebbe stato splendido.
Alcuni giorni dopo il mio primo Natale con lui, nel 1949, ero nella hall inferiore dell'edificio quando il Maestro arrivò. Aveva organizzato l' acquisto di un tavolo da ping pong per i monaci, come regalo di natale per loro. All'inizio, il tavolo era stato messo davanti al portico, appena sotto la finestra della stanza del Maestro, ma il rumore causato dai vari giocatori divertiti aveva fatto sì che il tavolo fosse spostato nella hall inferiore. Quella notte, vide il tavolo e mi fece segno di prendere una racchetta e di giocare con lui. Ci scambiammo la pallina alcune volte, fino a che segnò un punto con una schiacciata. Mettendo la racchetta giù, si girò verso le monache vicino a lui (Daya Mata, sua sorella e un paio di altre persone), e chiese: "Chi era il campione di ping pong qui?" Esse sorrisero ricordando. Camminando verso l'ascensore, il Maestro e gli altri entrarono. Prima che la porta si chiudesse, egli guardò dritto nei miei occhi e disse: "Hai un futuro splendido, Roy". Attirò il mio sguardo per un breve momento, poi disse: "Buona notte, Roy".
Ricordo un'altra occasione quando il Maestro stava ritornando da una passeggiata ed entrò nella mensa degli uomini. Alcuni di noi si sedettero al tavolo con lui, contenti del fatto che lui condividesse il suo tempo con noi. Ci chiese se avevamo del cibo immediatamente disponibile. Qualcuno trovò una scatola di pane dei toast, dei fiocchi di cereali e del latte. Si trovò una tazza, e il Maestro fu contento di questo spuntino, che consumò mentre parlava con noi.
Ad un certo punto, vide una bottiglia di salsa piccante. "Datemela", disse. Questa gli fu data, egli rimosse il tappo, ne versò una quantità generosa in un cucchiaio e l'ingoiò con apparente entusiasmo. Dopo averlo fatto, ne mise una quantità piccola nello stesso cucchiaio e ci disse di metterci in fila, poiché avremmo avuto un'esperienza. Così facemmo, e il Maestro mise un po' di quella salsa nelle nostre bocche. Stavamo tutti ridendo, gridando e piangendo! Il Maestro rideva di gusto, e i suoi occhi erano pieni di lacrime amorevoli di comprensione. Egli rideva, e rideva ancora, e ci amava molto. Noi contraccambiavamo quell'amore, anche per i preziosi momenti d'intimità e d'allegria che il Maestro ci offriva.
Il Maestro ci raccontò a quel punto di un episodio accaduto anni prima nella sua vita, quando aveva visitato il Messico. Durante il pranzo era stata indetta una specie di gara, per vedere chi, tra i partecipanti al banchetto, sarebbe stato in grado di sopportare il cibo molto piccante. Il Maestro ci disse che gli avevano servito cibo molto piccante, e aveva sempre passato il test perché si era preparato tempo prima. A quel punto, gli altri contendenti prepararono una trappola. Smisero di parlare della gara per parecchio tempo, quindi, un bel giorno gli servirono un piatto pieno di peperoncino. Rise al ricordo e disse: "Mi hanno turlupinato! Pensavo che la mia testa stesse per esplodere!"
Paramahansaji era un lavoratore instancabile. Pressava per finire le cose, pressava il suo corpo. Le persone intorno a lui erano guidate a seguire il suo ritmo. A volte non dormiva e non mangiava, se c'era un lavoro da finire. Eccelleva nel raggiungere gli scopi! Il suo motto non pronunciato era: "Perché aspettare? Facciamolo! Dio si prenderà cura d'ogni cosa". Egli lavorava, quelli vicino a lui lavoravano. Dio si prendeva cura di tutto.
Egli era consapevole del destino del lavoro della sua vita. Sapeva perché era nato nel mondo, sapeva qual'era il suo dovere, sapeva anche quali, tra i suoi discepoli, avrebbero raggiunto i loro scopi. Continuò ad andare avanti. Non lo vidi mai indietreggiare, e non lo vidi mai ritornare su una decisione presa che lui sapeva essere giusta.
Quando il Maestro stava preparando il suo commento alla Bhagavad Gita, egli dettò l'affermazione che il Mahavatar Babaji era Krishna, e rimaneva nello stesso corpo a causa dell'esperienza del "Kaya kalpa", una procedura rigenerante conosciuta agli yogi. Qualcuno nella stanza esclamò: "Oh, signore, non possiamo dire questo!" Il Maestro si alzò dalla sedia, girò intorno alla stanza come un leone e chiese: "Perché non possiamo dirlo? E' vero! Babaji è Krishna! Io affermo solo la verità!"
Dopo che la latteria era stata venduta, fui trasferito al centro di Phoenix. Organizzai i miei doveri per far sì di avere molto tempo per lo studio e la meditazione. Di solito innaffiavo e curavo i giardini, pulivo e facevo riparazioni negli edifici, battevo a macchina lettere commerciali, e preparavo la cappella per il servizio della domenica. Herbert era il ministro, e lo assistevo di tanto in tanto. Alla fine, mi fu chiesto di condurre le discussioni della domenica sera basate sulle lezioni del Maestro, e di insegnare occasionalmente delle posture di hatha yoga.
Stabilii la mia personale routine di meditazione, che per me funzionava bene. Mi svegliavo alle tre del mattino, mi lavavo e andavo nella cappella. Dopo aver acceso le candele votive sull'altare, onoravo Cristo, la Madre Divina e la mia linea dei guru. Dopo una lunga sessione di canti devozionali, meditavo. Dopo circa un'ora di meditazione, quando ne sentivo il bisogno, cantavo ancora e pregavo fino a che la meditazione non iniziava spontaneamente. Questo processo continuava fino circa alle sette del mattino.
Dopo una leggera colazione, iniziavo il mio giorno di lavoro e continuavo fino alle cinque del pomeriggio, con una pausa a mezzogiorno per un'ora di meditazione seguita da un pranzo a base di frutta o di insalata. La mia meditazione della sera iniziava alle 17:30 circa e proseguiva fino alle nove o alle dieci di sera.
C'erano molte volte nelle quali non riuscivo a meditare facilmente. Quando capitava pregavo di più, cantavo più a lungo, e a volte rimanevo semplicemente seduto con gli occhi aperti, guardando l'altare e lasciando che i pensieri fluissero, osservandoli. Rimanevo lo stesso seduto per il periodo stabilito, indipendentemente dal fatto che la meditazione desse i suoi frutti o meno. Questo era il mio impegno verso Dio e verso i guru.
Passai almeno due anni con questa routine, con rare eccezioni quando dovevo svolgere dei compiti inaspettati o quando dovevo andare a trovare il Maestro in California.
Non ho mai sofferto di allucinazioni e non ho mai avuto esperienze di "essere in un altro mondo". Ero calmo, centrato nell'anima, e riflessivo. Vivendo da monaco, non avevo vita sociale. Non andavo al teatro, non leggevo periodici, e non sentivo la radio. Leggevo l'edizione del fine settimana di un quotidiano.
In quel periodo, lessi molte volte l'autobiografia di uno yogi, la Bhagavad Gita, passi della Sacra Bibbia e biografie di parecchi santi cristiani, tra i quali San Francesco, Sant'Antonio, Santa Teresa e Padre Lorenzo.
Quanto sto per raccontare, successe durante una visita al Maestro nel ritiro del deserto. Ero impaziente, perché sentivo che il mio progresso era lento. Il Maestro sapeva che avevo letto, dopo il suo suggerimento, come Sant'Antonio avesse impiegato anni di contemplazione in solitudine per raggiungere l'illuminazione. "Roy, pensa a quanto paziente è stato lui!" Ricevetti il messaggio, ma a quel tempo le tribolazioni di Sant'Antonio erano l'ultima cosa a cui volevo pensare. In ogni modo, indipendentemente da quanto fossi impaziente o incerto circa il mio futuro, anche pochi minuti insieme a Paramahansaji erano sufficienti per rendermi coraggioso e sicuro.
Solo una volta non rispettai il consiglio del Maestro, ed egli subito mi corresse. Il fatto successe circa sei mesi dopo che mi aveva accettato come discepolo. Egli mi aveva istruito di leggere, per il primo anno, solo i suoi libri e pochi altri che mi aveva raccomandato. La ragione per questo era duplice: come prima cosa, quello che mi aveva detto di leggere richiedeva ben più di un anno di letture e riletture per essere pienamente apprezzato e compreso. Egli solitamente diceva: "Leggi un po', medita di più, pensa a Dio tutto il tempo. In secondo luogo, Paramahansaji non voleva che i nuovi discepoli leggessero troppe cose, per non diventare confusi.
C'era anche uno scopo più profondo. Un discepolo non deve mai questionare la saggezza delle istruzioni del suo guru, perché quest'ultimo sa meglio del discepolo quello che è bene per lui. Più importante di leggere, più importante d'ogni altra cosa, è, per il discepolo, di rimanere in sintonia con la coscienza del guru e con le sue volontà. Più di una volta sentii il Maestro dire, a me ad altri: "Se me lo permetterai, ti rivelerò Dio". Tenete in mente che non stiamo parlando di un qualsiasi rapporto tra insegnante e studente, ma esaminando la possibilità che ad un'anima appena risvegliata fosse mostrata la via per la liberazione della coscienza.
Fo solo anni dopo, dopo che avevo già insegnato per parecchio tempo, che compresi pienamente la responsabilità incredibile di un guru che lavora con i suoi discepoli, di quanto pochi sono i discepoli che vanno da un guru per quanto egli ha da offrire, se essi sono solamente pronti ad accettarlo.
Un giorno, nel periodo in cui ero ancora alla latteria, stavo consegnando il latte ai clienti residenti nella vicina Scottsdale. Notai una libreria nel cuore della città, e già sapevo di essere in errore a causa delle parole del Maestro. Sapevo, guardando i titoli nella sezione riservata ai libri sullo yoga, che stavo facendo qualcosa di sbagliato. Un libro intitolato "Il vangelo di Ramakrishna" attirò la mia attenzione. Quell' enorme volume era stato compilato da Mahendranath Gupta, un discepolo del grande Maestro.
Non appena presi il libro dallo scaffale per esaminarlo, la mia mente razionalizzò: "Oh, va tutto bene, anche il Maestro conosceva l'autore. Quando era un ragazzo lo andava a trovare, e ricevette persino un'esperienza spirituale attraverso il suo tocco". In questo modo giustificai interiormente il mio avido desiderio, e il successivo acquisto del "Vangelo di Ramakrishna".
Ero Così sicuro che la mia guida interiore fosse corretta che trovai conveniente nascondere il fatto del mio acquisto a Herbert e agli altri monaci! Leggevo il libro durante le pause, andando nella mia stanza privata per lo scopo. Le storie raccontate nel libro erano veramente affascinanti! Numerosi racconti di visioni, esperienze di kundalini, di samadhi e altro. Notai però che mentre il tempo passava, pensavo più a Ramakrishna e alle sue esperienze spirituali che non alla mia linea dei guru. Anche le mie meditazioni ne soffrivano, perché leggere il libro occupava la maggior parte del mio tempo libero.
Dopo poco, arrivò il tempo del mio regolare viaggio in California per visitare il Maestro che, questa volta, era a Mt. Washington. Stavo aspettando insieme ad altri monaci nella hall inferiore. Di solito, quando non mi aveva visto per alcune settimane, mi salutava, mi abbracciava gentilmente e mi diceva quanto era contento che io fossi andato lì da lui. In quell'occasione, si comportò in maniera diversa.
Notai che il Maestro mi vide non appena entrò nell'area dove eravamo. Sapeva che dovevo essere lì, e mi guardò con la coda dell'occhio, ma non mi guardò direttamente e non fece nessun cenno. Nessun altro nella stanza sapeva cosa stava accadendo tra noi, ma io sapevo perfettamente perché mi stava evitando.
Camminò lentamente per il corridoio, parlando con i monaci. Passò vicinissimo a me alla mia destra, continuando a non considerarmi. Eravamo quasi spalla a spalla. Fermandosi in quel punto, si girò verso un monaco e disse: "Roy è una prostituta spirituale!" Quindi, ci fu silenzio. Gli altri ovviamente non avevano idea di quello che lui intendesse, ed egli non lo spiegò. Egli stava parlando ad un altro, ma per il mio bene, sapendo che io ero perfettamente consapevole di quello cui lui si stava riferendo. Avrebbe potuto dire con più accuratezza che ero un adultero spirituale, poiché leggendo del materiale che mi era stato proibito avevo parzialmente diluito e mischiato la sua influenza spirituale nella mia coscienza.
A quel punto il Maestro si girò verso di me e, guardandomi fisso negli occhi, disse: "Ti ho chiesto di leggere solo i miei libri e pochi altri, per uno scopo. Quando sarai stabile nella realizzazione interiore potrai leggere qualsiasi cosa senza perdere la tua sintonia con me o essere confuso, ma fino ad allora dovresti fare come dico".
Non dissi nulla, giunsi le mani e m'inginocchiai a toccare i suoi piedi. Quando mi alzai, lui sorrise e mi toccò all'occhio spirituale. Mormorò quindi: "Va bene, va bene". Il suo tono era pieno d'affetto e di perdono, e l'incidente era chiuso.
Il Maestro non dovette mai farmi delle prediche. Doveva solo dire alcune parole, quando necessario, e io comprendevo le sue intenzioni e quello che si aspettava da me. Lo sapeva anche lui. Una volta disse ad un gruppo di discepoli: "Sono contento quando fate come dico. Lo sono ancor di più quando non lo devo fare e, solo attraverso uno sguardo, il messaggio è recepito".
Durante quella fase di intensa meditazione, imparai molto su me stesso e sulla validità degli insegnamenti dello yoga. Avevo sempre letto i quattro vangeli del Nuovo Testamento con rispetto, Ma fu solamente dopo aver sperimentato la meditazione e sentito il Maestro discutere gli insegnamenti di Gesù, che le scritture cristiane divennero vive per me. Iniziai a vedere chiaramente che una verità essenziale supporta le grandi tradizioni religiose, e che la luce si diffonde attraverso tutti gli avatar e i profeti di Dio.
C'è una gran differenza tra l'avere conoscenza di qualcosa e lo sperimentare realmente la realtà di quello che è contemplato. Per esempio, una cosa è riconoscere intellettualmente che l'anima è un'unità individualizzata della coscienza onnipresente che non ha bisogno di identificarsi con la mente o con il corpo per avere una propria realtà, un' altra è comprendere questa verità nella propria esperienza.
Una volta, nel 1951, mentre meditavo una domenica pomeriggio, sperimentai me stesso come un'unità di pura consapevolezza. Avevo meditato con calma per circa un'ora, quando, da qualche parte vicino, una porta fu sbattuta. Ero indignato che qualcuno nell'edificio fosse così poco sensibile, perché la regola imponeva che il silenzio fosse rispettato in tutto l'edificio.
Dopo pochi istanti diressi nuovamente la mia attenzione all'occhio spirituale; istantaneamente, non ero più una persona con un corpo che cercava di meditare. Ero un punto di consapevolezza cosciente, con visione sferica, galleggiante nel vasto mare dello spazio blu. Mi sembrava che piccole luci scintillanti brillassero distante. L'oceano della luce blu della coscienza era fermo, eppure vibrante di vitalità potenziale. Non c'era nessun senso di paura o di estraneità, solamente la sicurezza di essere consapevole della situazione.
Dopo un po' ritornai all'identificazione con il corpo. La consapevolezza interiore dell'esperienza è viva ancora oggi. Da allora ho ancora sperimentato percezioni simili, durante la meditazione, e quando mi svegliavo dal sonno nel bel mezzo della notte.
C'erano delle occasioni, durante quella fase della sadhana, nelle quali vedevo interiormente santi e personaggi di luce che non riconoscevo. La loro influenza era sempre benevolente, come se un raggio di grazia mi arrivasse direttamente da loro. Sperimentai altresì un grado di coscienza cosmica, durante il quale potevo compiere i miei doveri di routine mentre, allo stesso tempo, ero interiormente consapevole di riempire l'universo.
C'erano anche occasioni di energia spontanea che fluiva dai chakra, e lunghi periodi di tempo nei quali sentivo che il sistema nervoso era sintonizzato, il cervello ordinato, e la mente chiarita. Scoprii che i miei poteri intuitivi erano più pronunciati, che ero in grado di percepire i pensieri e le intenzioni degli altri, e che potevo comprendere i significati interiori delle scritture. (..)
Durante un'estate, sperimentai un potente desiderio sessuale, forte a tal punto che quando meditavo vedevo automaticamente delle belle donne e tutte le possibilità di fare del sesso con loro. Anche se sapevo che questo era normale, mi sentivo in colpa perché ero un monaco e perché avevo fatto voto di castità. Non c'è niente di sbagliato o anormale nel bisogno sessuale, e non è necessario essere in castità per ottenere il successo nella vita spirituale, ma un monaco non dovrebbe permettere che gli istinti sessuali e le relative fantasie possano disturbare il raggiungimento dei suoi scopi.
Quando, dopo un po' di tempo, visitai Paramahansaji, egli invitò me ed Herbert vicino al suo appartamento, nella parte superiore dell'edificio. Sedette su una sedia e parlò con noi di alcune faccende concernenti il centro di Phoenix. Quando i problemi della chiesa furono discussi, egli disse a Herbert: "Vai pure, voglio parlare con Roy da solo".
Quando fu certo che non c'era nessuno, si volse nella mia direzione e chiese: "Hai dei problemi?"
La sua domanda non giunse del tutto inaspettata, ma mi prese comunque di sorpresa. Prima di poter rispondere, continuò: "Va tutto bene, è normale per un uomo giovane avere simili desideri, ma nella tua situazione, questi disturbano la concentrazione. Ti dirò io cosa fare.". A quel punto, mi consigliò, come un padre avrebbe fatto con il figlio, sul come dirigere le energie sessuali verso l'alto fino al centro energetico del cuore, e quindi al terzo occhio per tramutarle in un'energia differente.
Più avanti, un fratello discepolo che aveva lasciato la vita monastica per sposarsi, mi raccontò di come il Maestro lo aveva consigliato, prendendo spunto da un antico manuale indiano riguardante l'amore romantico.
Benchè Paramahansaji avesse deciso in giovane età di essere un monaco, non era ignorante circa il rapporto uomo/donna. Per questo motivo, era in grado di consigliare sia i monaci sia le persone sposate in maniera molto pratica.
Ho sempre visitato Mt. Washington durante la convocazione estiva annuale, alla quale gli studenti provenienti da tutto il paese erano invitati per ricevere l'iniziazione al kriya yoga. Fu dopo l'iniziazione del 1951 che il Maestro nominò San Lynn come suo successore e gli assegnò il nome di Rajarsi Janakananda. Janaka era un antico re indiano che era anche un santo. Il sig. Lynn era un prospero uomo d'affari altamente autorealizzato.
I monaci e le monache erano sempre invitati a presenziare al banchetto annuale di Natale. Un altro di questi banchetti si teneva annualmente alla vigilia del compleanno del maestro, il 5 gennaio. Fu durante l'ultima celebrazione del compleanno, nel 1952, che parlò con noi della sua imminente transizione. Egli disse: "Passerò del tempo nello spazio, quindi, rinascerò nell'Himalaya e sarò con Babaji". Quella sera disse anche: "Ritornerò un giorno, ma non mi riconoscerete. I miei colori saranno il blu e l'oro".
Il blu e l'oro erano i colori preferiti di Paramahansaji. Faceva sempre decorare le cappelle e i santuari delle chiese con i muri color blu chiaro e oro, con aggiustamenti di bianco. Il blu chiaro ha un effetto rilassante e aiuta a conciliare la meditazione.
Nell'autunno del 1951, mentre ero al centro di Phoenix, ricevemmo una telefonata dal Maestro. Herbert prese la telefonata e me lo passò per un momento. Sorella Gyanamata era appena mancata, e ci fu chiesto di assistere al suo funerale nell'eremitaggio di Encinitas.
Gyanamata era stata una discepola devota per molti anni. Era Americana, e Paramahansaji le aveva dato questo nome monastico che significava "Madre di saggezza". Una volta disse di lei: "Conosce ogni mio pensiero", e disse anche: "Non vivrò a lungo dopo che sorella (Gyanamata N.d.T.) se ne sarà andata".
Ci disse più tardi com'era avvenuta la transizione. Era molto anziana, e aveva chiesto molte volte al maestro il permesso di lasciare il corpo. Il maestro aveva sempre rifiutato perché, le diceva, "Ho bisogno di te per l'ispirazione". Voleva inoltre che lei raggiungesse la completa autorealizzazione prima di andare via.
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