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 NON parlare di Dio

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V I S U A L I Z Z A    D I S C U S S I O N E
admin Inserito il - 16/04/2018 : 09:58:11
NON parlare di Dio

di Raimon Panikkar


"Nove modi di NON parlare di Dio"

L'autore ha una idea precisa non di ciò che Dio è, ma di ciò che Dio NON è:
ma anche quest'idea cade sotto la sua stessa critica.

Raimundo Panikkar, figlio di padre indiano (e indù) e di madre spagnola (e
cattolica), cresciuto in Spagna, è l'incarnazione vivente del dialogo
interreligioso. Emerito professore di studi religiosi all'università di
Santa Monica, in California ora in pensione, vive in un paesino vicino a
Barcellona. Tra i suoi libri più importanti ci sono: The Vedic Experience;
The Unknown Christ of Hinduism; Myth, Faith, and Hermeneutics; The Trinity
and the World's Religions; Worship and Secular Man; The Silence of God: The
Answer of the Buddha; The Cosmotheandric Experience; and Blessed Simplicity.
Orbis Books pubblicherà tra poco Gifford Lectures, The Rhythm of Being.


Il testo che segue è il primo capitolo di un nuovo libro.

Scopo dei seguenti nove punti è di contribuire a risolvere un conflitto che
lacera molti dei nostri contemporanei. Sembra infatti che molte persone non
riescano a risolvere il seguente dilemma: se credere in una caricatura di
Dio che altro non è se non una proiezione dei nostri desideri insoddisfatti
o non credere assolutamente in nulla e, di conseguenza, nemmeno in se
stessi.

A partire almeno da Parmenide in poi, la maggior parte della cultura
occidentale si è centrata sull'esperienza-limite dell'Essere e della
Pienezza. Una larga parte della cultura orientale, invece, almeno a partire
dalle Upanishad, si è centrata sulla coscienza-limite del Nulla e della
vacuità. La prima è attratta dal mondo delle cose, in quanto rivelano la
trascendenza della Realtà, mentre la seconda è attratta dal mondo del
soggetto conoscente, che ci rivela l'impermanenza di quella stessa Realtà.
Entrambe si preoccupano di ciò che è "ultimo", ossia di ciò cui molte
tradizioni hanno dato il nome di Dio.

Le nove brevi riflessioni che vi sottopongo non dicono nulla di Dio. Spero
con esse, invece, di indicare le circostanze in cui il discorso su Dio può
essere adeguato e mostrarsi fruttuoso, anche solo per vivere le nostre vite
più pienamente e liberamente. Non le offro come una scusa, ma forse come la
più profonda intuizione: non si può parlare di Dio così come si parla delle
altre cose.

È importante considerare il fatto che la maggior parte delle tradizioni
umane parlano di Dio al vocativo. Dio è un'invocazione.

La mia novemplice riflessione è uno sforzo per formulare nove punti che, mi
sembra, dovrebbero essere accettati come la base di un dialogo che la
conversazione umana non può più a lungo reprimere, a meno che non accettiamo
di essere ridotti ad essere null'altro che robot completamente programmati.
A ogni punto ho aggiunto poche frasi, concludendo con una citazione
cristiana come esempio.


1. Non si può parlare di Dio senza aver prima raggiunto il silenzio
interiore.

Proprio come è necessario fare uso di una macchina Geiger e di matrici
matematiche per poter parlare di elettroni con cognizione di causa, così
abbiamo bisogno di una purezza di cuore che ci consenta di ascoltare la
Realtà senza alcuna interferenza autoriferita. Senza un tale silenzio dei
processi mentali non si può elaborare alcun discorso su Dio che non sia
riducibile a estrapolazioni mentali.

Questa purezza di cuore è equivalente a ciò che altre tradizioni chiamano
Vacuità, ossia il conservarsi aperti alla Realtà, senza preoccupazioni
pragmatiche né aspettative da un lato né risentimento o idee preconcette
dall'altro. Senza una tale condizione, stiamo solo proiettando le nostre
preoccupazioni, buone o cattive che siano. Se cerchiamo Dio per far uso del
divino a qualche scopo, stiamo sovvertendo l'ordine della Realtà. "Tu
invece, -- dice il Vangelo -- quando preghi, entra nella tua camera e,
chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto" (Mt 6, 6).


2. Parlare di Dio è un discorso sui generis.

È radicalmente diverso da ogni altro discorso che riguardi ogni altra cosa,
perché Dio non è una cosa. Rendere Dio una cosa vuol dire farne un idolo,
anche soltanto un idolo della mente.

Se Dio fosse semplicemente una cosa, nascosta o superiore, una proiezione
del nostro pensiero, non sarebbe necessario dargli un tale nome. Sarebbe più
corretto parlare di un super-uomo, di una super-causa, di una meta-energia o
meta-pensiero, non sarebbe necessario chiamarlo Dio. Non sarebbe necessario,
allo scopo di immaginare un architetto molto intelligente o un ingegnere
estremamente potente usare il termine Dio; sarebbe sufficiente parlare di un
super-sconosciuto che sta dietro le cose e che non siamo giunti a conoscere
completamente. Questo è il Dio delle lacune, le cui ritirate strategiche ci
sono state rivelate nel corso degli ultimi tre secoli. "Non pronuncerai
invano il nome del Signore, tuo Dio", dice la Bibbia (Es 20, 7).


3. Il discorso su Dio è un discorso del nostro intero essere.

Non è solo una questione di sensazioni, ragionamenti, di corporeità di
filosofia accademica o di teologia. Il discorso su Dio non è la specialità
elitaria di alcuna classe. L'esperienza umana, in ogni epoca, ha sempre
cercato di esprimere "qualche cosa" di un altro ordine, che è nello stesso
tempo alla base e alla fine di tutto ciò che siamo, senza nulla escludere.
Dio, se Dio "esiste", non sta a destra né a sinistra, né sopra né sotto in
qualunque senso di queste parole. Pretendere di piazzare Dio al nostro
fianco è semplicemente una bestemmia. "Dio non rispetta nessuno", dice San
Giovanni.


4. Non è un discorso su qualunque chiesa, religione o scienza.

Dio non è il monopolio di nessuna tradizione umana, nemmeno di coloro che si
definiscono teisti o si considerano religiosi. Ogni discorso tendente a
imprigionare Dio in una qualunque dottrina è semplicemente settario.

È perfettamente legittimo definire il campo semantico delle parole, ma non
lo è limitare il campo di Dio all'idea che un dato gruppo umano adempie agli
scopi di Dio difendendo una concezione settaria. Se esiste "qualcosa" che
corrisponde alla parola "Dio" non possiamo confinarla nell'ambito di alcun
apartheid.

Dio è il tutto (to pan); anche la Bibbia ebraica lo dice e lo ripetono le
scritture cristiane.


5. È un discorso che avviene sempre per mezzo di una credenza.

È impossibile parlare senza un linguaggio. Analogamente non c'è linguaggio
che non convogli una qualsiasi credenza. Cionondimeno non dovremmo mai
confondere il Dio di cui parliamo col linguaggio delle credenze che dà
espressione a Dio. C'è una relazione trascendentale tra il Dio simbolizzato
dal linguaggio e ciò che effettivamente diciamo di Dio. Le tradizioni
occidentali hanno spesso parlato del mistero, che non significa un enigma o
l'ignoto.

Ogni linguaggio è condizionato e legato a una cultura. Per di più ogni
linguaggio dipende dal contesto concreto che lo nutre dei suoi significati e
dei suoi limiti nello stesso tempo. Abbiamo bisogno di dita, di occhi e
magari di un telescopi per localizzare la luna, ma non possiamo identificare
la luna con i mezzi di cui facciamo uso per osservarla. È necessario tenere
in conto l'intrinseca inadeguatezza di ogni forma di espressione. Per
esempio, le prove dell'esistenza di Dio che furono sviluppate dalla
filosofia scolastica possono solo dimostrare la non-irrazionalità
dell'esistenza divina a coloro che già credono in Dio. Altrimenti essi come
potrebbero mai essere in grado di sapere che la prova dimostra quello che
cercano?


6. È un discorso su un simbolo, non su un concetto.

Dio non può essere l'oggetto di alcuna conoscenza o di alcuna credenza. Dio
è un simbolo che è insieme rivelato e nascosto nello stesso simbolo di cui
stiamo parlando. Il simbolo è tale perché simboleggia, non perché viene
interpretato. Non c'è ermeneutica possibile per un simbolo perché è esso
stesso l'ermeneutica. Ciò di cui ci serviamo allo scopo di interpretare un
cosiddetto simbolo è il vero simbolo.

Se il linguaggio è solo uno strumento per designare gli oggetti, non può
esserci possibile discorso su Dio. Gli esseri umani non parlano solo per
trasmettersi informazioni, ma perché sentono l'intrinseca necessità di
parlare: ossia di vivere pienamente partecipando linguisticamente in un dato
universo.

"Nessuno ha visto Dio" dice San Giovanni.


7. Il discorso su Dio ha necessariamente molti significati.

Non può essere limitato a uno stretto discorso analogico. Non può avere un
"analogato primo" poiché non può esserci una meta-cultura dalla quale sia
costituito il discorso, perché essa già sarebbe comunque una cultura.
Esistono molti concetti di Dio, ma nessuno lo "concepisce". Ciò significa
che cercare di limitarlo, definirlo o concepirlo è un'impresa
contraddittoria e produrrebbe solo una creazione mentale, una creatura.

"Dio è più grande del nostro cuore" dice San Giovanni in una delle sue
epistole.


8. Dio non è l'unico simbolo che indichi ciò che la parola "Dio" vuole
trasmettere.

Il pluralismo è inerente, in ultima analisi, alla condizione umana. Non
possiamo "capire" o significare ciò che la parola "Dio" vuol dire nei
termini di una singola prospettiva, nemmeno partendo da un singolo principio
di intellegibilità. La stessa parola "Dio" non è necessaria. Ogni tentativo
di assolutizzare il simbolo "Dio" distrugge non solo i legami con il mistero
(che allora non sarebbe più assoluto, ossia oltre ogni relazione), ma anche
con gli uomini e le donne di quelle culture che non sentono la necessità di
quel simbolo. Il riconoscimento di Dio procede sempre in tandem con
l'esperienza della contingenza umana e della nostra propria contingenza
nella conoscenza di Dio.

Il catechismo cristiano riassume questo concetto dicendo che Dio è infinito
e incommensurabile.


9. È un discorso che inevitabilmente si completa ancora in un nuovo
silenzio.

Un Dio che fosse completamente trascendente, oltre che contraddittorio della
speranza, sarebbe superfluo, se non un'ipotesi perversa. Un Dio
completamente trascendente negherebbe la divina immanenza e nello stesso
tempo distruggerebbe l'umana trascendenza. Il divino mistero è ineffabile e
nessun discorso può descriverlo.

È una caratteristica dell'esperienza umana riconoscere di essere limitata,
non solo in senso lineare dal futuro, ma anche intrinsecamente dal
fondamento che le è dato. Se amore e saggezza, corporeità e temporalità non
sono uniti non c'è esperienza. "Dio" è una parola che compiace alcune
persone e dispiace ad altre. Questa parola, rompendo il silenzio
dell'essere, ci permette di riscoprirlo ancora una volta.

Noi siamo l'ex-sistenza di una "sistenza" che ci permette di prolungarci
(nel tempo), estenderci (nello spazio) di essere sostanziali (col resto
dell'universo) quando noi in-sistiamo, allo scopo di vivere, nell'andare
avanti con la nostra ricerca, resistendo alla viltà e alla frivolezza e
sus-sistendo precisamente in quel mistero che molti chiamano Dio e altri
preferiscono non nominare.

"Fermati, e sappi che IO SONO Dio"", canta un salmo.

Alcuni obietteranno che, a dispetto di tutto quel che ho detto avrei,
invece, una precisa idea di Dio. Risponderò che ho, piuttosto, una idea
molto precisa di ciò che Dio non è e che anche quest'idea cade sotto
l'attacco di questa critica in nove punti. Cionondimeno questo non
costituisce un circolo vizioso, ma piuttosto un nuovo esempio del circolo
VITALE della Realtà. Non possiamo parlare della Realtà ponendoci fuori di
essa, o fuori dal pensiero, proprio come non possiamo vivere senza amore.
Forse il divino mistero è ciò che dà significato a tutte queste parole.
L'esperienza più semplice del divino consiste nel divenire coscienti di ciò
che scuote il nostro isolamento (solipsismo) e che nello stesso tempo
rispetta la nostra solitudine (identità).






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