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 Intervista a Tiziano Terzani

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V I S U A L I Z Z A    D I S C U S S I O N E
admin Inserito il - 08/01/2010 : 12:29:30
Intervista a Tiziano Terzani

da Buddismo e Società - n.92 maggio giugno 2002

Intervista a Tiziano Terzani:
"Da un cronista di guerra un impegno di pace"

di Maria Lucia De Luca e Marina Marrazzi

Tiziano Terzani è nato a Firenze nel 1938 e dal 1971 è corrispondente
dall’Asia per il settimanale tedesco Der Spiegel. È vissuto a
Singapore, Hong Kong, Pechino, Tokyo e Bangkok. È stato inoltre
collaboratore de la Repubblica e attualmente del Corriere della Sera.
Nel 1994 si è stabilito in India con la moglie Angela Staude,
scrittrice, e i due figli. Profondo conoscitore del continente
asiatico, Terzani è autore di diversi libri dove ha raccolto le sue
esperienze di corrispondente di guerra.

Tra i primi Pelle di Leopardo (1973) dedicato al conflitto in Vietnam.
Nel 1975 è uno dei pochi giornalisti che resta a Saigon e assiste alla
presa di potere da parte dei comunisti. Da questa esperienza nasce
Giai Phong! La liberazione di Saigon (1976). Il libro viene tradotto
in varie lingue e selezionato in America come “Book of the Month”. Fra
i primi corrispondenti a tornare a Phnom Penh dopo l’intervento
vietnamita in Cambogia, racconta il suo viaggio in Holocaust in
Kambodscha (1981).

Il lungo soggiorno in Cina, conclusosi con l’arresto per “attività
controrivoluzionarie” e con l’espulsione, dà origine a La porta
proibita (prima ed. 1985), pubblicato contemporaneamente in Italia,
negli Stati Uniti, e in Gran Bretagna. Buonanotte, Signor Lenin (prima
ed. 1992), uscito anche in Germania e Gran Bretagna, è un’importante
testimonianza in presa diretta del crollo dell’impero sovietico. Il
libro è stato selezionato per il Thomas Cook Award, il premio inglese
per la letteratura di viaggio. Il best seller Un indovino mi disse
(prima ed. 1995) è la cronaca di un anno vissuto come corrispondente
dall’Asia senza mai prendere aerei: il libro ha ottenuto un notevole
successo di critica e di pubblico, al pari di In Asia (1998), che
descrive le multiformi realtà storiche, culturali ed economiche di
quel continente. A Tiziano Terzani è stato conferito nel 1997 il
Premio Luigi Barzini all’inviato speciale. L’ultimo suo libro, Lettere
contro la guerra (Longanesi, 2002), è una raccolta di articoli scritti
dopo la tragedia dell’11 settembre che l’autore ha presentato in
diverse città italiane. A lui è dedicato il sito
www.tizianoterzani.com.

*************************

«Vi premetto che l’unica qualità con cui vorrei andarmene alla fine
della vita è la sincerità. Quindi chiedetemi quello che volete,
cercherò di essere sincero». Con queste parole ci accoglie Tiziano
Terzani – capelli bianchi, barba bianca, tunica da indiano e un
inconfondibile accento toscano – nella sua casa sui colli fiorentini
dove vive con la moglie Angela, compagna di sempre.

Una casa che testimonia la ricchezza di una vita vissuta fino in
fondo. Ci sono libri in tutte le lingue, il letto cinese, il bastone
con cui ha scalato il monte Fuji. Ricordi di tanti paesi, di tante
guerre, di tante rivoluzioni.

E c’è l’oggi. L’imminente ritorno al “rifugio” himalayano e il viaggio
per la pace appena concluso. Un mese e mezzo in giro per l’Italia a
presentare il suo libro Lettere contro la guerra, a parlare,
discutere, raccontare. Suscitando interrogativi, accendendo speranze,
voglia di agire e di reagire.

Terzani conosce la Soka Gakkai, tanti anni fa in Giappone aveva
incontrato Daisaku Ikeda. Su un tavolino c’è il suo libro di dialoghi
con Michail Gorbaciov. «Ma quanti siete, in Italia? In quasi tutti gli
incontri che ho avuto c’era qualcuno che mi parlava dell’impegno della
Soka Gakkai per la pace, mi parlava di Ikeda, voleva regalarmi un suo
libro. Sono rimasto molto colpito di come il Buddismo sia diffuso qui
da noi».

E tanti membri, da tutta Italia, hanno telefonato in redazione
chiedendoci di intervistarlo. Un suggerimento che abbiamo seguito…

- Come ha deciso di diventare giornalista?

Io sono il primo della mia schiatta che sa leggere e scrivere. Vengo
da una famiglia poverissima, i miei primi pantaloni lunghi furono
comprati a rate. Mio padre faceva il tagliapietre ma era una persona
saggia, coltissima, citava Dante, sapeva il Rigoletto a memoria.

Così ho cominciato a fare il giornalista a sedici anni per guadagnare
un po’ di soldi: la domenica, quando i miei amici andavano alle feste
da ballo con le ragazzine, correvo con la vespa a seguire le corse
ciclistiche o le partite di calcio. Ma al giornalismo vero e proprio
sono arrivato che avevo già trent’anni, perché nel frattempo mi ero
laureato in Legge e mi ero sposato molto giovane con la mia splendida
moglie. Per mantenere la famiglia andai a lavorare all’Olivetti, dove
per cinque anni ho fatto l’operaio e ho venduto macchine da scrivere.
Poi finalmente, quando avevo 27-28 anni, mi offrirono una borsa di
studio che mi permise di andare alla Columbia University a studiare il
cinese, con il quale avrei potuto finalmente realizzare il mio sogno:
conoscere l’Oriente.

Dopo la laurea tornai in Italia e andai a lavorare al quotidiano Il
Giorno, dove feci il praticantato e l’esame da giornalista
professionista. Appena avuto il tesserino in tasca chiesi al mio
direttore di andare a fare il corrispondente in Asia: era il 1971. Mi
rispose di no. Incontrai i direttori dei principali quotidiani, ma
nessuno poteva soddisfare la mia richiesta. Allora diedi le
dimissioni, e con il denaro della liquidazione di un anno e mezzo di
lavoro cominciai a girare per l’Europa con mia moglie e due figli
piccoli.

Ho avuto fortuna. Parlavo francese, inglese e tedesco… Ad Amburgo mi
presentai al settimanale Der Spiegel dove mi offrirono il primo vero
contratto di inviato. Mi garantivano soltanto un piccolo fisso, ma
andare in giro per il mondo, cercare di capire cosa succede, era
proprio quello che volevo fare da sempre.

- Da lì è cominciata la sua avventura, la sua ricerca di capire gli altri?

La vita è una cosa molto strana e meravigliosa, quando la si vive non
ci si rende bene conto di come stanno le cose: si è lì, in quel
momento. È solo quando si invecchia che ci si guarda indietro e si
vede che c’è un filo che collega tutto. Per me questo filo era la
curiosità, la curiosità di capire l’altro. La spinta ad andare là dove
c’era qualcosa che non era mio, per capire, per rendermi conto.

Tra noi e l’altro c’è una distanza naturale, noi riteniamo altro lui e
lui ritiene altri noi. Nelle guerre questo è ancora più evidente,
perché le guerre, è ovvio, nascono quando gli uni non capiscono le
ragioni degli altri, e gli uni dicono che il male è lì mentre gli
altri dicono che il male è qui, e in nome di questo Dio io ammazzo te
e in nome di un altro Dio tu ammazzi me. Bin Laden, Bush, ora Sharon…

Il mio istinto è stato sempre quello di capire chi fossero “gli
altri”. Nel 1973 ero in Vietnam con gli americani, come tutti gli
altri giornalisti. Stavamo al di qua del fronte e gli altri sparavano.
Ma io non sentivo questi “altri” come nemici, a me non avevano fatto
nulla. E allora passai le linee e trascorsi una settimana con i
Vietcong.

- Lei è stato tanti anni in Cina.

La Cina è stata la mia grande avventura. È una grande civiltà, per
volerla capire bisogna avvicinarcisi quasi camuffandosi.

In tutte le lingue asiatiche “altro” è una parola orribile. Identifica
lo straniero, colui che è fuori, colui che viene da fuori e deve
rimanere fuori. Se si è già incapsulati all’interno di una parola che
rende stranieri, l’unico modo per avvicinarsi a una cultura è fare
come il camaleonte, che prende il colore della foglia se è sulla
foglia e il colore della sabbia se è sulla sabbia: diventare sempre di
più come l’altro.

Io in Cina parlavo cinese, mangiavo cinese, vestivo cinese, mandavo i
miei figli alla scuola cinese, viaggiavo insieme alla famiglia con le
biciclettine dei cinesi. E nonostante tutto ciò a un certo punto i
cinesi mi hanno chiesto: «Ma tu chi sei? Un italiano che lavora per i
tedeschi, che parla cinese imparato in America, sei forse della CIA o
del KGB?». Dopo l’interrogatorio e un mese agli arresti, arrivò
l’espulsione.

- E il Giappone?

Devo dire che il Giappone per me è stato difficile, non ci sono
entrato davvero dentro, non sono riuscito a imparare bene la lingua,
forse ero troppo vecchio. Poi avevo un handicap: venivo dalla Cina.
Chi viene dalla Cina ha difficoltà a capire il Giappone e viceversa,
perché si tratta di due realtà simili, ma per niente uguali. Forse è a
causa dei caratteri della scrittura: sono gli stessi ma vengono
pronunciati in modo diverso.

Un’altra grande differenza: il Giappone è la civiltà del dettaglio
mentre la Cina non ha dettagli, è la civiltà della grandeur, non c’è
mai l’attenzione per le piccole cose. Sono due prospettive molto
difficili da conciliare. E poi c’è da dire che io venivo da
un’esperienza drammatica, quella di essere stato espulso dalla Cina.
In Giappone ho passato cinque anni belli, ma alla fine credo di poter
dire che io e questo paese non ci siamo davvero intesi. In verità,
credo che in questa vita non riuscirò a cambiare le cose, ma se avrò
un’altra vita come essere umano – a me piacerebbe essere rugiada nella
prossima – vorrei provare a fare i conti con il Giappone.

- Può raccontarci la sua esperienza indiana?

I primi cinque anni in India li ho passati da giornalista, dietro ai
ministri, agli ambasciatori, alle cene, tra i viaggi, la guerra in
Kashmir, il conflitto con il Pakistan. Ma poi mi sono accorto che non
sapevo nulla di questo paese.

Ero andato lì perché cercavo la dimensione del divino, ormai assente
nel mondo occidentale e nella Cina maoista. In India invece ogni gesto
ha ancora a che fare con un altro mondo: il salutarsi, o quando le
donne prendono una manciata d’acqua e la porgono al sole la mattina…
Com’era da noi cinquant’anni fa, ricordo che mia madre si segnava
prima di mangiare. Questo mi affascinava. E poi, l’India mi piaceva
perché mi pareva l’ultima civiltà asiatica in cui c’era ancora una
forza interiore che poteva essere di freno al materialismo
occidentale.

Però dopo cinque anni mi resi conto che di tutta questa roba non avevo
visto niente, mi tenevano sempre lì a parlare di guerre, di morti in
Kashmir, di programmi di sviluppo, di apertura del mercato delle
telecomunicazioni, tutte cose da giornalisti…

Mi mancavano tre anni per andare in pensione. Dissi al mio giornale
che non volevo più lavorare, non volevo più fare il corrispondente,
correre dietro a tutti i massacri, le alluvioni, i colpi di stato…
Così mi hanno fatto un contratto da scrittore “speciale”, talmente
speciale che non avevo bisogno di scrivere. Allora ho preso i voti,
sono entrato in un ashram induista, mi sono messo a studiare il
sanscrito, la mattina alle cinque andavo a pulire le statue con lo
yogurt e la polvere di sandalo. Sono entrato in quella realtà. Mi
rendo conto che per tutta la vita non ho fatto altro che questo, per
tutta la vita una sola cosa mi ha davvero incuriosito: capire gli
altri. Ma per capirli bisogna avvicinarli, vivere nel loro mondo.

- Come ha conciliato il desiderio di stare dentro le cose con quello
di raccontare, di essere testimone…

Io ho avuto molto dalla vita, sono un uomo fortunatissimo.
Innanzitutto a diciassette anni ho incontrato mia moglie, e ciò ha
determinato tutta la mia esistenza. E poi la vita mi piace, mi
diverte, mi affascina, e per istinto la devo raccontare. Non c’è gioia
che io provi da solo, perché ho imparato molto presto a spartirla con
mia moglie, e poi anche con gli altri. Ma non solo quando una cosa è
bella provo il desiderio di condividerla, anche quando mi trovo di
fronte un’esperienza orribile, se mi pare di aver capito qualcosa
attraverso di essa, mi viene voglia di parlarne agli altri.

Come giornalista, poi, ho quasi sempre scritto in una lingua che non
era la mia. Questo ha fatto sì che mi dovessi liberare scrivendo libri
nella mia lingua. E mi è andata bene. Se mi guardo indietro mi dico:
«Che fortuna!».

- Questa sua curiosità istintiva può essere la chiave del rispetto per l’altro…

Credo di sì. L’altro giorno è venuto da me un signore per chiedere una
dedica sul mio libro. Mi è venuto da scrivere: «Al signor tal dei tali
perché mi aiuti a rendere i turisti dei pellegrini».

Mi spiego: la curiosità che viene dall’interno – non quella di
prendere qualcosa da portarsi a casa, il ricordino, la fotografia –
parte proprio dal rispetto. Mentre invece l’industria del turismo, una
delle più orribili del mondo, sollecita solo una curiosità
consumistica. Come si potrebbe recuperarla? Trasformando i tour in
pellegrinaggi.
In realtà il turismo è nato proprio così. In un paese come il
Giappone, per esempio, si andava al monte Fuji come pellegrini, non
come turisti. Quando io sono stato in Giappone mi sono rapato, ho
preso il bastone e ho scalato quella montagna con l’idea del
pellegrino che vuole raggiungere la cima, che sta camminando su Dio, e
allora non lascia cartacce. Se si potesse riportare nel turismo questo
atteggiamento, il rispetto, il senso di devozione, si salverebbero i
turisti, che saprebbero di più quello che fanno e la smetterebbero di
continuare a consumare, e si salverebbe anche il consumabile.

Se ci si mette a studiare una cosa, come si può odiarla? L’odio
dell’Occidente verso l’Islam risiede in gran parte nel fatto che
nessuno se ne occupa più, nessuno più studia questa cultura. Provate a
vedere quanti studenti all’università studiano l’arabo: pochissimi. È
chiaro che così si aumenta la distanza. Ma se ci si mette a studiare,
l’oggetto del proprio studio diventa anche l’oggetto del proprio
amore. Il rispetto nasce dalla conoscenza, e la conoscenza richiede
impegno, investimento, sforzo.

- Come si può coniugare il rispetto, il riconoscimento di una cultura
altra e la nostra idea occidentale di universalità dei diritti umani…

Questo è il vero grande problema. Innanzitutto bisogna intendersi
sulle parole. Le parole di per sé sono una trappola. Per esempio, cosa
significa felicità? Per Gengis Kan forse la felicità era ammazzare un
migliaio di persone, chiamare il capo di quella tribù, prendergli la
moglie, violentarla sotto i suoi occhi e poi tagliarle la testa. Ma
per me quella non è felicità.

Quindi parlare di diritti umani, di universalità dei diritti umani, mi
lascia qualche perplessità… Vorrei che i diritti fondamentali fossero
sempre rispettati, ma onestamente mi chiedo: siamo tutti d’accordo
sull’universalità di questi diritti?

Certo che c’è qualcosa che accomuna gli esseri umani, che dovrebbe
essere il rispetto per tutti. Un occidentale ha forse meno paura della
morte di un orientale? Forse la psiche è diversa tra un orientale e un
occidentale? Non credo. Un orientale ama più o meno come un
occidentale, ha la stessa paura di essere solo... Secondo me di cuore
ce n’è uno solo, e il cuore è uguale per tutti, la voce del cuore sa
quali sono i diritti umani, i diritti degli animali, il cuore parla
allo stesso modo nel petto di tutti, musulmani, ottentotti, bantù,
esquimesi, uomini, donne. Il problema è che questa voce del cuore non
la sta più ad ascoltare nessuno, c’è tanto rumore, quella è una voce
piccola, che bisbiglia, proprio un soffio a volte.

- È da questo, a suo avviso, che dipendono le difficoltà sempre più
gravi che il mondo si trova a fronteggiare?

L’umanità sta affrontando un periodo di spaventosa barbarie, le torri
che crollano sono una barbarie, il modo con cui l’occidente reagisce –
perché non sono solo bombe americane, sono bombe di tutti – è un’altra
barbarie. E Guantanamo – la base americana sull’isola di Cuba dove
vengono portati i prigionieri afgani – non è una barbarie? Forse
potevano risparmiarsi la foto del marine che tiene l’arabo legato come
un cane con la camicia di forza. Quella foto non l’ha mica rubata un
paparazzo, l’ha fatta un fotografo ufficiale del Dipartimento della
difesa ed è stata diffusa nel mondo perché volevano farla vedere,
volevano soddisfare la fame e la sete di vendetta dell’opinione
pubblica americana.

Quello che mi stupisce è come mai un paese che per tanti anni ha fatto
giustamente la lotta per la difesa dei diritti umani nei confronti del
mondo comunista, nei confronti di tante dittature africane, d’un
tratto fa distinzione tra cittadini americani e cittadini non
americani.

Ci sono voluti centocinquanta anni per mettere a punto la Convenzione
di Ginevra, per dare una vernice di umanità alla convivenza umana, e
ora viene tutto messo da parte in nome dell’interesse nazionale
americano, della lotta al terrorismo. Di nuovo l’ambiguità delle
parole: ma chi è il terrorista?

Certo, ci vogliono le istituzioni, ci vorrebbero le leggi, ci
vorrebbero le definizioni, ma a corto di tutto ciò bisogna fermarsi,
rallentare, bisogna sedersi, chi sa pregare preghi, chi non sa pregare
faccia qualcos’altro. E allora prendiamo coscienza di esserci e
cominciamo a ragionare, cosa vogliamo diventare, da dove veniamo, dove
stiamo andando.

Voi, con le vostre preghiere, trovate una consolazione tutti i giorni…
Permettetemi di dire che avete scoperto l’acqua calda, ma quest’acqua
calda l’hanno dimenticata tutti. Com’è possibile che con tutte queste
scienze delle comunicazioni, con tutti questi telefonini, abbiamo
dimenticato le cose fondamentali?
Ma pensi ai suoi nonni, o ai miei bisnonni, la mattina si alzavano e
pregavano, andavano nei campi, tornavano la sera e c’era il vespro,
prima di andare a cena guardavano il pezzo di pane e dicevano grazie,
c’era sempre un momento in cui si ringraziava, oggi siamo tutti
distratti, tutti di corsa…
A volte mi intristisce un po’ che questa grande vecchia civiltà
europea, che aveva una sua storia e che potrebbe ritrovare anche
all’interno di se stessa dei valori, deve avere dei giovani che
viaggiano fino in Oriente e vanno a cercare la soluzione laggiù.

Credo che occorra cercare in se stessi le proprie radici, la propria
ricchezza. Non è un caso che si stia diffondendo proprio il Buddismo,
che non è una religione, è una civiltà, non ha comandamenti o dogmi.
Einstein diceva che il Buddismo è l’unica religione che si confà alla
mentalità scientifica. A Bodhigaya ho visto mongoli, tibetani, cinesi,
srilankesi, europei, e ho avuto per la prima volta il senso di come il
Buddismo sia una grande religione, una religione universale.

- Tornando all’universalità dei diritti umani, come possiamo agire in
loro favore senza calpestare l’identità delle altre culture? Come
possiamo porci, ad esempio, nei confronti del burqa indossato dalle
donne afgane?

Il punto è chiedersi: dobbiamo aiutare altri popoli, che ci sembrano
oppressi, a volere quello che vogliamo noi? Bisogna per prima cosa
rendersi conto che nel mondo ci sono oggi milioni e milioni di persone
che non vogliono essere come noi.

Sono orgogliosissimo di essere italiano, di essere fiorentino, di
essere europeo, ma dico, specie ai giovani: «Siate orgogliosi di
essere chi siete, però non pretendete che la vostra cultura abbia il
monopolio di tutto, il monopolio della dignità della donna, il
monopolio della civiltà, il monopolio della felicità, del benessere,
del progresso. Analizzate, confrontatevi, difendete la vostra in
maniera giusta, non violentemente».

Io trovo bello, meraviglioso essere diversi. Pensate alle donne
giraffa del nord della Birmania, che portano quei lunghi collari. È
una tortura terribile, ma cosa dovremmo dire loro: «Toglieteveli»? Non
solo il loro collo è diventato così lungo che levando il collare
soffocherebbero, ma soprattutto in questo modo sarebbero private della
loro identità. Tutta la vita sognano questo… Alla lunga se non gli
andrà più bene saranno loro a cambiare, le trasformazioni economiche e
culturali porteranno a questo mutamento, ma l’idea che ci debba essere
un gruppo di donne americane che gli tolgono i collari è una follia.

Riguardo al burqa è lo stesso. Sono d’accordo che è l’espressione di
un aspetto maschilista dell’Islam, ma è anche una tradizione di
centinaia di anni. Ci sono gruppi di coraggiose donne afgane che
risolveranno il problema. Ma mi chiedo nuovamente: dobbiamo aiutarle a
volere quello che vogliamo noi?

Si ritorna a quanto dicevamo all’inizio: il rispetto delle altre
culture è una grande cosa, quello che va evitato è lo scontro tra
civiltà, che porterà alla fine di tutto. Mai come ora l’umanità ha
avuto in mano armi di distruzione di massa così potenti, e questo
rappresenta un pericolo per tutti gli esseri umani, ma l’idea che gli
americani vogliono andare a bombardare Saddam Hussein per togliergli
queste armi è assurda, come se solamente loro avessero il diritto di
possederle.
Ma allora perché non ricominciamo da zero, non eliminiamo le armi e
smettiamo di produrle?

- Dopo l’11 settembre si è detto da più parti che interpretare gli
attuali conflitti come scontri tra civiltà è una posizione pericolosa
e fuorviante. Secondo lei oggi, nei conflitti, pesano più gli aspetti
ideologici o quelli economici?

Questa domanda mi permette di esprimere una mia posizione ben precisa.
Per trent’anni ho fatto il giornalista, e mi sono sempre dovuto
occupare di quello che si pensa domani, la prossima settimana o il
prossimo mese. Non c’è dubbio che se fossi giornalista e dovessi
analizzare la situazione di oggi direi che per la popolazione
americana l’istinto di vendetta è comprensibile, perché si sono presi
una botta spaventosa. Direi anche che dietro c’è il petrolio, c’è
l’interesse delle aziende militari che vogliono rinnovare tutto
l’armamento, la voglia di essere una superpotenza.

Ma oggi voglio fare un passo in avanti: le vere radici della violenza,
cioè della guerra, secondo me non sono fuori di noi. La violenza ha le
sue radici dentro, nelle nostre passioni, nei nostri desideri, nella
nostra voluttà, nel nostro arraffare, nel nostro voler possedere più
che volere essere.

Di questo sono assolutamente convinto, e quindi arrivo a dire che le
rivoluzioni esterne sono state dei disastri. Quelle di questo secolo
le ho viste tutte, all’inizio o alla fine. Sulla fine della
rivoluzione sovietica ci ho scritto un libro, Buonanotte signor Lenin.
Che disastro, le montagne di morti, le montagne di lacrime, le tracce
di orrore, di tristezza… E quella cinese? Quanti morti… E quella
vietnamita? Perciò sono arrivato a questa conclusione, che è la mia
ultima speranza: forse l’unica rivoluzione da fare è quella interiore,
che non fa morti, non massacra, non lascia tristezza.

Ci vorrà tempo, forse due vite, tre, quattro generazioni, ma è questa
una buona ragione per non cominciare? Dico sempre che se ognuno di noi
fa una piccola cosa, allora tutti insieme ne facciamo una grande.

- Quindi se ognuno di noi decide di fare qualcosa…

Ma cosa vogliamo sperare, che Bush ci salvi dall’orrore del mondo?
Forse ci salviamo noi se è vero quello che sento, che la vita è una,
che siamo tutti collegati. Il Buddismo ha dato veramente il contributo
più grande. Mi piace raccontarlo come fa Thich Nhat Hanh, quando dice
che il tavolino che ha davanti è lì perché migliaia di cose hanno
contribuito: quel seme, quel giorno che ha piovuto, quella pianta che
è diventata albero dentro la foresta, il boscaiolo che va e lo taglia,
e poi lo porta in una segheria dove c’è un falegname, e il falegname
prende i chiodi, e anche i chiodi vengono da una miniera dove un
giorno un altro signore è andato a comprarli. Bastava che il nonno del
falegname non fosse nato, e quel tavolo non sarebbe stato lì…

Se la vita è così, allora perché vogliamo eliminarne un pezzo che non
ci sta bene?

Se riuscissimo a dire: «Siamo tutti parte di questa cosa», se
riuscissimo con questa benedetta coscienza a prendere coscienza di chi
siamo, dove siamo, da dove veniamo, dove andiamo, forse… Io per un
mese e mezzo sono andato in giro per l’Italia a parlare di queste
cose, e la cosa curiosa è che la gente mi sta ad ascoltare. Nelle
tante lettere che mi scrivono il tono è sempre questo: «Grazie, lei
dice quello che sento». Siccome sono vecchio e non ho più paura di
essere preso per pazzo dico le cose che sento… e la gente questa
pazzia la riconosce, è la pazzia di tutti, tutti vogliono vivere in
pace, chi vuol mandare i propri figli a morire?

Però soltanto quando si vedono i morti altrui come propri, quando si
sente la sofferenza sui corpi degli altri come sul proprio, allora si
comincia a ragionare. Il cammino di pace può partire da tante
considerazioni: secondo me è l’unico cammino oggi. Qualcuno mi ha
detto: ah, tu parli sempre della pace, ma in tutta la storia
dell’umanità c’è stata sempre la guerra… Io ho risposto, citando
Gandhi: ma perché ripetere la vecchia storia e non cominciarne una
nuova?

L’essere umano che noi siamo oggi non è allo stadio definitivo,
veniamo dalla scimmia, ci sono voluti cinque milioni di anni per
diventare così. Questa non è la fine della nostra specie, è una parte
della sua storia. Allora perché non approfittare ora di questa bella
cosa che è la coscienza per fare un passo in su invece che in giù?
Visto che possiamo ancora cambiare, perché non prendiamo la decisione
di cambiare in meglio, un po’ più di fratellanza, un po’ meno
violenza…

Ma guardatevi davvero bene attorno, guardate la televisione, siamo
all’inizio di una svolta orribile di disumanità, di atrocità, di
imbarbarimento… Vogliamo continuare in questa catena oppure, come io
dico, cogliere questa buona occasione? Tutto il mondo ha visto le
torri crollare, e tutto il mondo tutte le sere vede la Palestina,
com’è che la gente non si sveglia? Io ci spero ancora: questa è una
buona occasione, l’occasione che tutti dicano basta, non si può andare
avanti così…

- In realtà anche noi siamo complici di tutto ciò.

Io dico che siamo inconsapevoli complici, non c’è dubbio, siamo
corresponsabili. Se non prendiamo coscienza e non diciamo basta….

- Come facciamo noi occidentali a vivere questa contraddizione? In
realtà tutti virtualmente abbiamo bombardato l’Afghanistan.

Sono d’accordo, e mi vergogno… Ci sono momenti nella storia in cui
vivere normalmente, come se non fosse successo niente, è vergognoso.
Bisogna arrestare un attimo la propria vita frenetica e dire no,
parlare con gli altri, contarsi. Viviamo ancora in un sistema
democratico, possiamo fare qualcosa. Io ho scritto un libro, vado in
giro, parlo, ognuno fa il suo. Durante una delle mie presentazioni un
signore anziano si è alzato e ha chiesto come avrebbe potuto
contribuire. Io gli ho domandato: «Ma lei cosa faceva nella vita?».
«Io suonavo». «E allora si rimetta a suonare per la pace, insegni ai
giovani a godere della musica, se amano la musica verranno fuori dei
pacifisti, forse…».

- Cosa direbbe a un bambino?

Gli parlerei di una cultura di pace. Ieri il mio editore mi ha detto:
«Visto che ha un nipotino di due anni e mezzo – a cui è dedicato
l’ultimo libro Lettere contro la guerra, ndr – perché non scrive un
racconto per lui?»

Io mi rendo conto che sono vissuto tutta la vita senza essere esposto
a delle idee di pace, tutta la storia che studiamo parla di massacri,
di guerre, Alessandro è Magno (grande) perché ammazza tutti… Sono
dovuto arrivare a sessant’anni per scoprire in India che l’imperatore
Ashoka, vissuto nel terzo secolo a.C., dopo una battaglia disse: «Che
cosa terribile ho fatto!», e cambiò profondamente. Davanti al museo
nazionale di Delhi c’è una stele dove si annuncia che Ashoka aveva
aperto in Siria due ospedali, uno per gli umani e uno per gli animali.
Questo accadde più di duemila anni fa. E noi parliamo tanto di
progresso. Un bambino che sa queste cose cresce in modo diverso.

Davvero sono preoccupato… le cose sono complicate, non mi aspetto
niente di buono, senonché continuo a credere che questa possa essere
ancora una buona occasione. Questi orribili mezzi di comunicazione di
massa che oggi mi spaventano sono anche un potente aiuto.

- Esiste allora un lato positivo della globalizzazione?

Certo. Questo mio pellegrinaggio di pace che mi ha portato in diverse
città italiane a parlare del mio ultimo libro è cominciato con una
letterina, una e-mail che ho mandato a tre o quattro amici dal mio
rifugio sull’Himalaya. Questi a loro volta l’hanno mandata ai loro
amici e agli amici degli amici, ed è diventata una catena di S.
Antonio. A un certo punto ho ricevuto la telefonata di un preside di
un liceo di Foggia che mi diceva: «Ho avuto la sua e-mail da una
monaca buddista di Katmandu». Vedi la globalizzazione…

In questo viaggio in Italia ho incontrato migliaia di giovani,
migliaia di persone, ho fatto a volte tre riunioni al giorno. Se in
ciascuno di questi incontri ho acceso anche una sola lampadina, e
questa ne ha accesa un’altra e così via… posso essere contento, ho
fatto il mio dovere. E ora torno per un po’ alla mia meravigliosa
montagna.







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