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Inserito il - 10/12/2009 : 11:02:18 Più di un miliardo di affamati cronici, dei quali 100 milioni in più solo nel corso di quest'anno
L'industria della carne: quando metteremo uno stop alla devastazione dell'industria della carne?
Un articolo comparso qualche giorno fa su Le Monde... e tradotto da Barbara Primo per Promiseland.it
Quando metteremo uno stop alla devastazione dell'industria della carne? L'iper-consumazione aumenta il rischio di fame e degrada il clima.
Spiacente di mostrarmi brutale, ma succede che certi incontri ufficiali, per non dire universali, siano delle vere e proprie fesserie. È probabilmente il destino che spetta al summit mondiale sulla sicurezza alimentare, che ha luogo a Roma dal 16 al 18 novembre. L'organizzazione per l'alimentazione e l'agricoltura (FAO), potenza organizzatrice, manterrà la sua posizione. La fame è una vergogna, il mondo è mal organizzato, bisogna assolutamente reagire.
La FAO sarà forse meglio ispirata a spiegare perché tutti gli impegni presi in passato hanno potuto, fino a questo punto, mancare i loro obiettivi. Già nel 1996, un altro summit mondiale dell'alimentazione prometteva di ridurre della metà, entro il 2015, il numero di affamati. Cinque anni più tardi, nel 2001, la FAO reclamava nel corso di una nuova riunione internazionale «una più grande determinazione politica e uno scadenziario rigoroso per le misure da prendere».
Il risultato è tragico: il nostro pianeta conta più di un miliardo di affamati cronici, dei quali 100 milioni in più solo nel corso di quest'anno. In dicembre, come ci hanno accennato, lo squilibrio climatico in corso sarà al centro di un immenso forum planetario a Copenaghen. Nessuno sa cosa ne uscirà, perché nessuno immagina una sconfitta. Né al contrario un successo. Un piccolo mondo di burocrati, trincerati dietro un gergo incomprensibile dai popoli, pretende di regolare il destino comune a colpi di « compensazione carbonio» e di «addizionalità», meccanismo di sviluppo pulito (MDP) o di riduzione di emissioni dovute alla deforestazione e alla degradazione delle foreste (REDD).
Si potrebbe certo scegliere di riderne, ma allo stesso tempo non c'è alcun dubbio che Copenaghen segnerà una data importante, anche se ci sono dei dubbi. È molto probabile che la discussione, che vada a buon fine o meno, resterà tecnica e confusa. Ora, esiste veramente un'altra strada, audace ma semplice, volontaria ma limpida. E questa altra via, che si parli del summit di Roma o di quello di Copenaghen, si chiama carne.
Nella buona e nella cattiva sorte la carne è diventata un'industria. Essa conosce le sue crisi a ripetizione di sovraproduzione, le sue fabbriche, i suoi operai, le sue Borse, i suoi commercianti. Prodotto antropologico per eccellenza, la carne affonda le sue radici nella memoria più arcaica della nostra specie, e la maggior parte delle civilizzazioni hanno associato il suo consumo alla forza, alla potenza, alla salute, per non dire alla virilità.
Ma con i cambiamenti industriali operati in Francia negli anni '60 i consumatori sono stati incitati con vari metodi pubblicitari a mangiarne sempre più spesso. Ogni francese di media ne mangia 90 chili all'anno, ossia tre volte di più rispetto a prima della seconda guerra mondiale. Mutatis mutandis, tutto l'Occidente ha seguito la stessa strada, ispirato dal modello americano.
Catastrofe? Si, è proprio la parola che si impone. Evidentemente i promotori di questa confusione non immaginavano nessuna delle conseguenze spiacevoli delle loro decisioni. I giovani zootecnici dell'Istituto Nazionale della Ricerca Agronoma (INRA) del dopo-guerra non desideravano che nutrire gli uomini e dimostrare le loro competenze. Più tardi un certo Edgard Pisani, ministro con de Gaulle, credeva di fare il suo dovere di modernista trasformando la Bretagna in fabbrica di carne e di latte della Francia. Inutile fare qualsiasi processo retroattivo. Sarebbe facile, ma soprattutto vano. Val meglio giudicare la situazione attuale, che è grave. Perché l'industria della carne oramai non ha che un obiettivo: avanzare persistendo nella sua esistenza. Ma così facendo devasta tutto al suo passaggio.
La fame? Non può far altro che aumentare man mano che la richiesta di carne aumenta nei Paesi detti emergenti. Se le curve attuali di crescita del numero mondiale di capi di bestiame dovessero continuare a crescere, finiremo per coabitare sulla Terra, nel 2050, con circa 36 miliardi di vitelli, mucche, maiali e volatili. Questo non succederà per un motivo evidente: non esistono abbastanza terreni coltivabili per nutrire una tale quantità di animali. I quali sono, nel complesso, dei pessimi trasformatori di energia. Si stima che ci vogliono tra le 7 e le 9 calorie vegetali per produrre una sola caloria animale. In breve, l'alimentazione animale richiede superfici gigantesche di erba e cereali.
Il pianeta non arriverà probabilmente mai ad avere 36 miliardi di animali d'allevamento, ma nel frattempo il consumo di carne in Occidente o nei Paesi come la Cina, si attuerà sempre più a discapito dell'alimentazione umana. In Francia, anche se nessuno se ne preoccupa, circa il 70% delle terre coltivabili servono già per l'alimentazione degli animali (« Rapporto Dormont », Afssa, 2000). Tra il 2005 e il 2031, se niente fermerà questa macchina infernale, la Cina vedrà il suo consumo di carne passare da 64 milioni a 181 milioni di tonnellate all'anno (Lester Brown « Earth Policy, 2005). Dove sono i terreni capaci di produrre un tale miracolo? Sicuramente non in Cina.
La sola prospettiva per il futuro in questo campo consiste nel diminuire il nostro consumo di carne in maniera organizzata. E di orientarsi il più possibile su delle diete a base vegetale, le sole in grado di nutrire eventualmente più di 9 miliardi di esseri umani nel 2050. L'iper-consumo di carne, come si effettua da noi e nella maggior parte dei Paesi sviluppati, conduce a delle carestie sempre più massicce. Ma la FAO parlerà della carne il 16 novembre a Roma?
E la confraternita di esperti climatici riunita qualche giorno più tardi a Copenaghen aprirà a sua volta un argomento così scottante? Ci piacerebbe crederlo. Per dare un'occhiata alla storia, bisogna dire che è la FAO che ha sollevato la questione pubblicando nel 2006 un rapporto accattivante, che a nostra conoscenza non è stato tradotto in francese (Livestock's Long Shadow). Per quale strano motivo? Sia come sia, questo documento cambia i dati sulla crisi climatica in corso.
Citazione del comunicato stampa della FAO: «Con l'aiuto di una metodologia applicata all'insieme della filiera, la FAO ha stimato che l'allevamento è responsabile del 18% delle emissioni di gas a effetto serra, ossia più che i trasporti!». Si, avete letto bene. L'allevamento mondiale, calcolando tutto il ciclo di produzione della carne, ha un ruolo più nefasto che l'automobile, il treno, la barca e l'aereo riuniti. Circa il 18% di emissioni di gas a effetto serra antropico, cioè causato dall'azione umana. Un'enormità.
In un mondo più ordinato del nostro và da sé che questi dati cambierebbero il taglio della grande conferenza di Copenaghen. Invece di divertire gli astanti con le tasse carbonio, il cui effetto sarà nei migliori dei casi derisorio, si potrebbe infine cimentarsi alla causa massiccia dello squilibrio climatico. Ma gli Stati, ma i governi troverebbero allora sul loro cammino una delle lobbies industriali più potenti, cioè quella dell'agricoltura e dell'allevamento industriali. In Francia ognuno sa, o dovrebbe sapere, che tutti i governi dagli anni '60 in poi, di destra come di sinistra, hanno co-gestito la questione agricoltura in relazione stretta con gli interessi privati.
La causa sarebbe quindi disperata? Essa è in ogni caso difficile e ben poche orecchie si rizzano. Ma indiscutibilmente le bocche cominciano ad aprirsi. In gennaio 2008, l'Indiano Rajendra Pachauri, presidente del gruppo inter-governamentale di esperti sul clima (GIEC) – per questo Premio Nobel per la Pace- dichiarava nel corso di un passaggio a Parigi: « Per favore, mangiate meno carne! Non è buono per la salute ed è un prodotto grande produttore di gas a effetto serra. » Ci resta ancora qualche giorno per dargli ragione. Troppo poco?
Autore: Fabrice Nicolino - LE MONDE - mercoledì 18 novembre 2009
Traduzione di Barbara Primo - promiseland.it
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