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 La dialettica e la sperimentazione

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V I S U A L I Z Z A    D I S C U S S I O N E
admin Inserito il - 13/06/2016 : 10:05:46
La dialettica e la sperimentazione

Le Chiavi Mistiche dello Yoga

di Guido Da Todi

Capitolo 53:

È indubbio che molti tra di noi, dopo aver letto le vite di alcuni santi
tradizionali, siano comunque rimasti impressionati dall’ostilità insana
che - a partire dal medio evo – invadeva costoro, nei confronti del
proprio io, dei propri sentimenti, del proprio corpo.

Accanto a sovrane virtù teologali, spiccava, in molti di essi, un certo
abituale disprezzo e - perchè no? – sadismo verso quell’angolo di
universo (o, se preferiamo:” quell’angolo di Dio”) rappresentato da
loro medesimi.
Sarebbe lungo enumerare ogni dettaglio dell’insanità di cui parlo. Molti di
voi ben la conoscono. Disprezzo profondo verso l’io; brutali torture auto
applicate, con cilici e diversi feroci strumenti;
inventive morbose a procurarsi un costante dolore fisico, ed ancora.

Ciò, indubbiamente, nasce dallo studio meticoloso sulla religiosità
occidentale. Ma, anche quella orientale – pur se in minore misura – ha
espresso tali istinti di profonda primordialità.

Il disprezzo del corpo fisico e delle sue esigenze, considerate una realtà
ostile e nemica, involuta e frenante lo spirito ha scatenato le più brutali
e ingiuste torture, ed assurdi autolesionismi, nei religiosi e nei laici di
ogni tempo.

Nessuno di loro aveva il diritto di infierire contro il duttile e nobile
strumento che è rappresentato dal veicolo che ci sincronizza con il vasto
piano materiale: il corpo. E neppure con quell’amalgama serrato di
sentimenti e di emozioni, con quella conchiglia in un costante atto di
schiudersi, che era la loro personalità – emozionale, più che mentale
(considerati i tempi e le evoluzioni secolari a cui ci riferiamo) -.

Del principe Gotamo, il Budda, esistono due tipi di iconografie
tradizionali. Una di esse lo rappresenta, in molti templi orientali,
sotto l’immagine <dell’uomo di dolore>. Si riferisce al periodo in
cui l’Avatar perseguiva il suo ideale di ricerca dopo aver
adottato il sistema dell’ascetismo e della tortura.

Le statue mostrano un viso scarno e sofferente; un torace rinsecchito, che
rivela le costole evidenti;
uno sguardo quasi allucinato.

E, in effetti, Budda trascorse un lungo periodo di sofferenza e di
isolamento dagli uomini, nel digiuno più assoluto e nelle sofferenze che
applicava al suo corpo fisico ed al suo mentale, assieme ai propri
discepoli.
Egli sperava e credeva che l’illuminazione si raggiungesse <eliminando e
disprezzando la materia>. Si dice, allora, che – mentre se ne stava
rintanato in una grotta di quella foresta, durante tali pratiche
dolorose – sentisse passare, lì accanto, un maestro di musica, con il
proprio allievo.

“Vedi, figliolo” – diceva il primo, al secondo – “ esiste un principio
fondamentale nell’arte di maneggiare l’archetto musicale. Se tenderai
all’estremo le sue corde, ne sortirà un suono acuto e sgraziato; al
contrario, se le lascerai molli e lente, il suono verrà fuori gonfio e
sfatto. Il segreto, allora, sta nel dare alle corde <la giusta misura> di
trazione. Che non dovrà essere nè troppo rigida, e neppure troppo cedevole.”

Si narra che Gotamo – grazie alla frase carpita casualmente – ricevesse
l’illuminazione della
<Giusta Via di Mezzo>.

Tuttavia, scendiamo nella pratica applicazione dei principi che abbiamo
sorvolato. E vediamo quanto essi, incredibilmente, coabitino – in una vasto
assieme di sfumature – in quell’esplosione del Budda immanifesto, che è
rappresentata da ognuno di noi, mentre segue, oggi, la strada della ricerca
e della liberazione.

Cominciamo a considerare quel che sfugge a molti spiritualisti,
vista l’ovvietà estrema del fenomeno: ossia, l’agitarsi costante degli
automatismi della propria vita interiore, in un ciclo di ossessioni
mentali, prese per affermazioni di verità.

Quanti di noi manipolano dei concetti universali, e li contrappongono ad
altre logiche, senza – in fin dei conti – possedere un vero vissuto di
queste essenze?

Una simile tendenza, in effetti, riproduce una forma di inconsapevole
crudeltà verso la propria natura più intima, che esige, invece, una
costante e piena sperimentazione; mentre, al contrario, viene nutrita da un
ansito intellettuale, che soddisfa più la cornice che il quadro.

Vorrei pregarvi di non sottovalutare quanto è stato appena accennato. A
ben pensarci, vi renderete conto che l’attardarsi - in uno sforzo
quotidiano e prolungato nel tempo – a descrivere ciò che,
contemporaneamente, non costituisce un pieno riscontro individuale può
arrivare a rappresentare la lama concreta che lacera sempre più il rapporto
armonico tra il Reale e l’Irreale.

A buona ragione, il fenomeno può, dunque, essere posto in cima ad ogni
inconscio autolesionismo psicologico.

Il grande silenzio della propria anima, trattenuto ed alimentato in sè,
possiede quella musicalità autonoma e naturale che riempie, alla fine, i
soggettivi spazi spigolosi di una solitaria dialettica individuale.

Osserviamo, ora – per quanto banale possa sembrare l’esempio – la crescita
di un fiore, o lo sviluppo di un cucciolo selvatico, nelle foreste. Facendo
tesoro di complessi istinti genetici, sia il

fiore che l’animale si sviluppano, maturano, evolvono seguendo degli
istinti sani e liberi, in spazi vitali e propri.

Nel secondo caso – ove il fenomeno è visibile – solo se minacciato da un
individuo più forte ed aggressivo, oppure dal capo branco, l’animale rivela
sottomissione e servilità. Lasciato, invece, libero da intimidazioni, esso
– in genere - si esprimerà liberamente, seguendo la via di minor resistenza
dell’autonomia e dell’indipendenza.

Ciò, non avviene, in molti casi, nel consorzio umano. La mente – abile e
subdola – è stata, da tanti uomini, messa in condizione di incravattare ed
immobilizzare il proprio istinto naturale di sana autodeterminazione.

Da qui, la nascita di un altro subdolo lesionismo strisciante:
l’espressione di una devozionalità, prona e non illuminata, verso altari,
umani e non, che – perdonate i termini decisi – l’inconscio profondo vuole
ed intende considerare come delle <comode e definitive seggiovie> verso il
proprio benessere spirituale (o, anche, materiale).

Il preciso ritmo cosmico offre, invece, e richiede dei riscontri rapidi –
in risonanza alla Legge della mobilità universale – tra cosa e cosa,
situazione e situazione, evoluzione ed evoluzione.

Un contatto tra il microcosmo ed il macrocosmo deve vivere solo il tempo
necessario a provocarne
<l’arco voltaico> del Tao naturale; e, poi, rivolgersi ad altre esperienze
produttive, dopo aver dato e ricevuto quanto la natura gli ha permesso di
sperimentare, nella Sinfonia dei significati archetipici.

La <comoda seggiovia> (il Guru, la setta, la religione, ed ogni forma di
rapporto statico e non dinamico) è la tendenza espressa da molti
spiritualisti, oggidì.

Nessuno si è mai chiesto il perchè – quando, oramai, il legame sembrava
divenuto assoluto ed eterno – la Legge divina abbia <sottratto> il Guru,
l’Avatar, ed ogni altro sostegno ai propri discepoli e fedeli, lasciandoli
- come narra la tradizione – affranti e disperati per la <morte> del
proprio Idolo.

Eppure, bastava che essi avessero saputo guardare a fondo negli
Insegnamenti sin lì ricevuti, per rendersi conto che l’unità della Vita
divina rifiuta ogni tipo e natura di separatività.

Quindi, la seconda delle <ostilità insane> che l’uomo cova nel suo <aspetto
oscuro>, e che gli causa quella sottile sofferenza riflessa ed inconscia, è
il voler delegare la propria vita ad un supporto maggiore; il voler
rinunciare alla dinamica individuale, per attardarsi, oltre un limite
consentito e giusto, nel mandato di ogni sua creatività esclusiva.

Il rispetto e la stima di sè – rivolti con spontaneità al prossimo; il
riconoscere, a fondo, che il flusso divino scorre nel proprio io, come in
quello di ogni altra sia pur inconcepibile realtà evoluta; il percepire
– anche vagamente – che il termine <assolutezza> riguarda
ogni frammento dell’esistenza, e, proprio in quanto tale, si esprime solo
attraverso le forme relative del creato; e che, codeste (noi compresi),
per quanta luce possano emanare, ne proporranno solo delle eterne
apparenze relative e successive (compresi i Guru e gli Avatar); tutto ciò
allineerà l’uomo ad un’individuale armonia con quanto esiste, e ad una
creatività personale inimmaginabile.

Dobbiamo renderci conto che la vita possiede una semplice e sola qualità:
quella dell’assolutezza.

Ora, considerato il significato del concetto, come possiamo illuderci che
ogni apparente frammento dell’essere possa venire <aumentato, o diminuito>,
prendendo a metro di analisi l’unica unità di misura che mai esista? Una
misura impossibile da <maneggiare>?

Questo concetto – se vissuto sufficientemente – traina anche la stima,
l’apprezzamento e la fiducia; non soltanto individuali e singoli, ma
estese potenzialmente a tutto ciò che esiste. E, di conseguenza, la
pace e la serena consapevolezza del <proprio tesoro interiore>.

Un fervido e pulsante assoluto risiede in noi ed in tutti gli esseri. E,
prima ce ne renderemo conto, prima ci immergeremo – concretamente,
veracemente, sacralmente – nella <radiante tavola piatta> dell’unità, e
della sola unità; senza cuspidi; che non è convessa, nè concava; che è ramo
e tronco.

Forse, molti di voi penseranno che tutto ciò rappresenti un assieme di bei
concetti e di ricamate teorie filosofiche. Ma, non è così.

Se oggetto di ponderata e quotidiana meditazione, il confine tra assoluto e
relativo inizia, infine, a delinearsi nella nostra coscienza. In effetti, e
senza forse rendercene conto, ci siamo calati nel nodo cruciale che ha dato
origine ad ogni metafisica e a tutte le ricerche spirituali della
tradizione.

Questi concetti sono sempre stati più forti dell’uomo stesso. Essi hanno
mostrato di possedere un potere alchemico innato, che riesce, alla lunga, a
trasformare la soggettività individuale.

Abbiamo parlato, nell’articolo, del passaggio necessario dell’uomo, dalla
mente e dalla dialettica, alla sperimentazione; e della sua natura dinamica
– che esprime il diretto legame con l’assoluto.

Ancora una volta il <buco nero> dell’universo soggettivo ci ha risucchiato
verso la solita direzione:
l’Uno Tutto. Poichè, questo, celano – nel loro profondo significato – i
concetti espressi sin qui.

Solo con lo sguardo dell’anima rivolto verso la <sensazione> dell’assoluto
(chè, altro non si può ottenere) potrà iniziare ed accelerarsi quel
processo destinato a coinvolgerci nell’Armonia fondamentale delle cose,
levigando e disciogliendo ogni tendenza all’oscurità, all’errore, ed alla
violenza verso noi stessi e verso gli altri.

Ed è in questo <universo parallelo> che Ramakrishna ha visto <direttamente>
Dio. Ed è qui che noi anche lo vedremo.


(Guido Da Todi)







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