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 La Convinzione

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V I S U A L I Z Z A    D I S C U S S I O N E
admin Inserito il - 29/07/2010 : 11:27:33
La Convinzione

È possibile la certezza nell’età del dubbio?

di Ravindra Svarupa Dasa

“Le tradizioni teistiche possono avere teorie differenti su Dio e su chi Lo adora, ma, per quanto io possa constatare, la spiegazione più semplice e chiara della certezza sperimentata ovunque da religiosi elevati si trova nella comprensione di atma-Pramatma.”

Il dubbio è il motore della mentalità moderna, l’infaticabile macchina che guida lo spirito nella nostra era. Il dubbio fu onorato con un primo riconoscimento nei saggi di Michel de Montaigne, gentiluomo di corte del Rinascimento: “Noi siamo, non so come, duplici dentro di noi, con il risultato che non crediamo a quello in cui crediamo e non siamo capaci di liberarci da quello che condanniamo.” Ai tempi di Montaigne l’Europa era lacerata da guerre di religione d’intollerabile crudeltà. La certezza assoluta propria dei furiosi antagonisti cominciò a inquinare l’idea stessa di convinzione, ma Montaigne vide più in profondità. Egli screditò la doppiezza che si annida nelle certezze dei fautori della religione.

Nel loro zelo egli riconobbe un tipo di copertura, un eccesso di compensazione per una mancanza di fede celata e non riconosciuta: “Noi non crediamo a quello in cui crediamo.” Nei tempi moderni, l’incredulità è entrata così profondamente nell’essenza della nostra esistenza che sia la mancanza di fede sia la fede sono fondamentalmente diventate due tipi di mancanza di fede. È la segreta mancanza di fede dei veri credenti che arma gli eserciti della notte nella poesia di Mattew Arnold “Dover Beach” del 1867:

Il Mare della Fede,
era pure, un tempo, in alta marea e attorno
alle rive della Terra giaceva, racchiuso
come le pieghe di una cintura risplendente.
Ma adesso altro non sento
Che la sua malinconia, un lungo ruggito,
E siamo qui, come in una piana che s’oscura
sbattuti tra confusi allarmi di lotte e fughe,
dove eserciti ignoranti si scontrano nella notte.

William Butler Yeats, nella sua poesia profetica e apocalittica “Il Secondo Avvento” del 1919, fa affermazioni infauste:

Crolla ogni cosa; il centro più non tiene;
Anarchia pura esplode contro il mondo;
La sanguigna marea s’innalza e ovunque
La cerimonia d’innocenza è spenta;
Manca ai migliori ogni convincimento
E nei malvagi più intensa è la passione.

Altri naturalmente hanno celebrato l’incredulità – essa dà la liberazione – e hanno fatto proseliti. Lasciate a Friedrich Nietzsche il compito di propagandare l’incredulità in forma di pillole non facili da inghiottire: “Le convinzioni sono nemiche della verità ancora più pericolose delle menzogne.” (Aforisma 483, Human, All Too Human, 1878) Accadde così che io, con un comportamento infantile e “fin troppo umano”, inghiottii la pillola. Servivo l’altare del dubbio. L’incredulità era divenuta il mio credo. Ci sono voluti sei anni di accademia perché mi rendessi conto che l’incredulità – scetticismo, relativismo, nichilismo – di per se stessa era diventata un dogma.
Tutte le facoltà di religione s’impegnavano nell’ermeneutica del dubbio. Ammettere una qualsiasi convinzione in contrasto con la sfiducia verso tutte le convinzioni era andare in cerca di un anatema.

Tutti si univano in coro per inneggiare ad una fede incrollabile nella mancanza di fede. Questo dogmatismo cominciò ad affliggermi. C’era qualcosa di sbagliato su cui riflettevo con irritazione. E poi il mio salto in avanti: noi scettici sbagliavamo a dubitare. Abbiamo sbagliato a far avanzare così tanto il nostro dubitare. Se abbiamo intenzione di essere totalmente scettici, allora dobbiamo essere scettici anche sul nostro scetticismo. Se tutto è relativo, anche il nostro relativismo deve essere relativo. Riferii il mio caso durante una riunione informale alla facoltà di religione. “Ti devi sentire come se camminassi su una fune sopra un abisso,” rispose una collega laureata, diventata monaca da poco. “Sì, ma non sono sicuro nemmeno che ci sia la corda,” dissi. Tutti risero. Cerchiamo di essere abbastanza coraggiosi da rimuovere il terreno su cui poggiamo e levitare miracolosamente sul nulla.

DUBITARE DEL NOSTRO DUBITARE

Ed ecco che il cerchio si chiude. Dubitando del nostro stesso dubitare troviamo che ci attende una sorpresa: si apre una sottile fessura che rende possibile la fede. Solo una possibilità. Anche meno – solo l’apertura alla possibilità. Questa si rivela essere una fessura attraverso cui anche Dio può insinuarsi. Una cosa porta ad un’altra. Alcuni anni dopo il manifestarsi di questa fessura mi unii – non cesserò mai di meravigliarmene – a una “religione organizzata” molto severa. Una religione impegnata nella predica. Definita da un accademico come “induismo evangelico”. (Questa espressione, sistematicamente inesatta, questa volta è esatta.) Poi venne il momento, quindici o venti anni dopo, in cui mi resi conto di essere totalmente e completamente sicuro che, come si dice: “Dio esiste”. (Questa espressione, sistematicamente inesatta, questa volta è esatta)

Non mi limitavo a sostenere che l’esistenza di Dio potesse essere un caso possibile, che “Dio esiste” potesse essere ragionevolmente affermato e che questa affermazione fosse vera (naturalmente) con la possibilità che potesse anche essere falsa. Niente affatto. Ne ero assolutamente, totalmente certo. Questo mi sconvolgeva. Tuttavia sono una persona moderna. Aggredii la mia convinzione: come posso essere così sicuro? Che diritto avevo di esserne così certo? Com’era possibile? Ero qualificato ad avere un grado così elevato di certezza? Che cosa c’era di sbagliato in me?

Attaccai anche la mia fede, ma essa respinse i miei assalti. Non riuscivo a smuoverla. Era come se fosse lì da sola, una realtà irrevocabile; che non dipendeva da me. Esposi il problema ad alcuni devoti assennati. “È la misericordia senza causa di Krishna,” disse uno. “È un dono,” disse un altro. Una laureata in filosofia che aveva insegnato teologia cristiana a studenti di teologia, citò una distinzione tra certezza e convinzione. Questi colloqui diedero sollievo alla mia ansia permettendomi di accettare questo dono con tutto il cuore. Tuttavia – non per guardare in bocca al cavallo donato – mi sentivo ancora spinto a comprendere meglio quello che mi era stato dato.

UN PUNTO SICURO DA CUI INIZIARE

Iniziai la mia ricerca con questa domanda: esiste qualcosa di cui ogni persona può essere assolutamente certa? La domanda, naturalmente, mi riportò alle origini della modernità, al vero “padre della filosofia moderna” Renée Descartes, che aveva trasformato il dubbio di Montaigne in una metodologia. Spazzando via, nel suo Discorso sul Metodo, tutto ciò che è oggetto di dubbio, era rimasto solo con la sua indubitabile esistenza di entità capace di conoscere. Poteva dubitare di tutto eccetto del fatto che stava dubitando. Cogito ergo sum, fu la sua famosa definizione: “Penso quindi sono.” Descartes spiegò che con il termine “pensiero” egli intendeva “quello che accade in me e di cui sono immediatamente cosciente, nella misura in cui ne sono cosciente.”

La sua esistenza di soggetto conoscente era assolutamente certa. Qui trovai il mio punto di partenza: comincia da te stesso, come Descartes. In questo però, mi sembrò di poter essere più chiaro di Descartes. Il “cominciare con me stesso” significa, per essere precisi, iniziare con l’atman, il sé cosciente. Comunemente usiamo il termine “anima” o “anima spirituale” per indicare la stessa entità, ma senza la stessa chiarezza di significato. La parola sanscrita atman (come radice) o atma (al nominativo singolare) è un sostantivo che indica “il sé”. (La stessa parola serve anche come pronome riflessivo, il “sé” nelle parole che indicano me stesso, te stesso, lei stessa e via dicendo).

Quando realizzo, come fece Descartes, la mia coscienza, comprendo di essere consapevole, perlomeno in qualche misura, dell’atman, di me stesso come essere vivente cosciente capace di fare esperienze, che ora porta e anima un corpo e una mente materiali. Nei due decenni che precedettero la mia ricerca su Cartesio, ero stato impegnato in pratiche spirituali dirette alla ricerca dell’atman. Per tentare di comprendere la mia certezza relativa a Dio, cominciai a riflettere su quelle pratiche. L’atma-tattva, la scienza del sé, al pari di ogni scienza, si presenta all’inizio come una teoria, un tipo di quadro o mappa concettuale della realtà spirituale. Una teoria, come una mappa, è il frutto dell’esperienza di ricercatori precedenti preparata per guidare gli esploratori successivi.

L’unico scopo della teoria è di guidare la pratica, proprio come una mappa stradale è fatta perché un viaggio in automobile avvenga senza problemi. Inoltre, l’atma-tattva comprende istruzioni pratiche su come intraprendere il viaggio spirituale e su come usare la mappa in modo corretto. In questo senso essa è una scienza applicata che si occupa della purificazione e dell’espansione della coscienza. Nella moderna filosofia occidentale non troviamo alcuna iniziativa di questo tipo. Certamente la filosofia moderna specula senza fine sulla coscienza e sull’esperienza, sulla conoscenza e sul conoscitore e il conosciuto, ma ha perso l’aspetto applicativo così importante nelle antiche tradizioni classiche di Pitagora, Parmenide e Platone. Oggi non esiste alcun particolare “modo filosofico di vivere”. È tutta un’altra cosa.

CONOSCENZA APPLICATA

Avevo accettato una tradizione indiana, che ora ritrovavo come il vero fondamento della filosofia occidentale. Quando me ne resi conto sentii di essere tornato a casa. La conoscenza applicata, il modo di vivere spirituale esige l’impegno in una disciplina abbastanza ardua e rigorosa. Questa si chiama yoga. La disciplina è necessaria per rimuovere il velo materiale in modo da poter ottenere un’esperienza diretta della realtà spirituale: dell’atma, il sé e del Paramatma, il Sé Supremo, Dio. La necessità di una vita così disciplinata è specificata in modo sintetico nella Bhagavad-gita (14.17): la conoscenza spirituale dipende dalla virtù, dal sattva. Se la nostra consapevolezza è coperta dall’influenza materiale della passione (rajo-guna) e da quella dell’ignoranza (tamo-guna), non avremo la possibilità di percepire direttamente né l’atma né il Paramatma.

Perciò noi che accettiamo questa concezione viviamo una vita regolata e molto semplice, intesa a minimizzare le richieste dei sensi, a ridurre la lussuria, la collera, l’avidità e via dicendo. La moderna cultura materialistica sostiene valori e attività che espandono le influenze della passione e dell’ignoranza è dunque necessario isolarsi dalla sua influenza. La cultura spirituale ha invece lo scopo di sviluppare la virtù e di ridurre la passione e l’ignoranza. Dopo alcuni decenni di pratica dell’atma-tattva, la scienza del sé, la mia coscienza era diventata più chiara e si era elevata. Avevo perlomeno ottenuto una certa consapevolezza della mia identità spirituale e, assieme ad essa, di Dio. Un maestro di yoga di nome Kavi ha affermato (Srimad- Bhagavatam 11.2.42) che chi pratica in modo appropriato sviluppa simultaneamente tre valori: la devozione, la diretta percezione di Dio e il distacco da ogni altra cosa.

Questo accade nello stesso modo naturale con cui la soddisfazione, il nutrimento e il sollievo dalla fame si manifestano insieme, ad ogni boccone, per colui che mangia. Nella disciplina dello yoga il praticante realizza la propria identità di atma e inoltre incontra Dio inizialmente come Paramatma, il Sé Supremo, guida interiore, il Sé di tutti i sé. In questa esperienza troviamo la chiave del pensiero cartesiano. Perché conoscere Dio, il Paramatma, è come conoscere il nostro vero sé. Perciò questa esperienza ingenera una certezza totale in colui che la fa. Poiché non si può dubitare della propria coscienza, quando questa stessa coscienza si è in qualche modo espansa, Dio diventa conosciuto come io conosco me stesso, perché Dio è il vero Sé del mio sé.

Non posso qiondi dubitare dell’esistenza di Dio più di quanto possa farlo della mia. Posso naturalmente dubitare della mia esperienza relativa agli oggetti percepiti in questo mondo. È possibile, notava Descartes, che una persona venga ingannata da qualche demone malvagio (qui egli anticipava di circa quattrocento anni la premessa di Matrix). Anche in questo caso non si può essere ingannati sulla propria coscienza. La conoscenza di Dio non è come la conoscenza del mondo esterno, di questo tavolo su cui scrivo, del giardino che vedo dalla mia finestra, delle persone che si rilassano in quel giardino. In questo caso io sono lo spirito che conosce la materia. C’è una connessione molto più intima tra me e Dio: non solo l’atma e il Paramatma sono della stessa natura spirituale, ma l’atma è parte del Paramatma.

Per questa ragione, una volta conseguita l’esperienza del Paramatma, diventa impossibile dubitare di Dio. Dopo che la coscienza si è così espansa, Dio resta parte del contenuto di ogni esperienza che ho. Sperimento il mio essere come parte dell’essere di Dio. Non che in questa esperienza io percepisca qualcosa di nuovo, come un nuovo vicino di casa o l’ultima novità di Apple. Al contrario, con la coscienza purificata ed espansa, percepisco ora quello che c’è sempre stato ed è rimasto finora, semplicemente non avvertito, non conosciuto, e non riconosciuto. In questo stato di coscienza espansa ho la consapevolezza di non poter vedere niente senza che lo veda prima Dio, di non poter ascoltare niente senza che lo ascolti prima Dio e via dicendo. Non posso dubitare che Dio veda e ascolti niente di meno di quello che vedo e ascolto io.

LA CERTEZZA NELLE ALTRE TRADIZIONI

L’esperienza di atma-Paramatma, che rende il dubitare dell’esistenza di Dio tanto impossibile quanto il dubitare della propria, non è ovviamente una prerogativa alla mia tradizione religiosa o di altre ad essa storicamente collegate. Una certezza naturale e incrollabile riguardo a Dio si è manifestata in religiosi avanzati di molte tradizioni teistiche. Queste tradizioni possono avere teorie differenti (dottrine teologiche) su Dio e su chi Lo adora, ma, per quanto posso constatare, la spiegazione più semplice e chiara della certezza sperimentata ovunque da religiosi avanzati si trova nella comprensione di atma-Paramatma. Possiamo anche concludere che siamo fatti per credere con ferma convinzione. Non si può aggirare questa realtà. Qui si trova la base, a mio parere, di una convinzione autentica che nasce dal dischiudersi del sé. Diversamente, sembriamo condannati a verificare la riflessione di Montaigne: “Noi siamo, non so perché, duplici dentro.” Una convinzione autentica può servire da antidoto agli attuali scontri globali tra i diversi modi di essere duplici: una fede attiva che nasce dalla disperazione per la propria mancanza di fede e che si scontra con un attivo scetticismo che nasce dalla negazione della propria fede.

Ravindra Svarupa Dasa, guru e GBC dell’ISKCON, vive al tempio di Filadelfia, dove nel 1971 si unì all’ISKCON. Si è laureato in religione alla Temple University.

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