V I S U A L I Z Z A D I S C U S S I O N E |
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Inserito il - 27/10/2009 : 10:30:15 Anatta
del venerabile Ajahn Sumedho
Ass. Santacittarama, 2009. Tutti i diritti sono riservati.
SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA.
Traduzione di Letizia Baglioni
Estratto del libro "Il suono del silenzio", su gentile concessione dell'Editore Ubaldini.
In questo terzo giorno di ritiro potete notare gli effetti di due giorni trascorsi in nobile silenzio rispettando gli otto precetti e praticando la presenza mentale. Le riflessioni che offro sono un incoraggiamento. Lunico vero aiuto che posso darvi incoraggiarvi a essere svegli, perch, per quanto sia facile parlarne e capirlo in astratto, la realt sta nel riconoscere per esperienza in cosa consista lessere svegli, sati-sampajaa, sati-paa. Si tratta di ricondurre lattenzione sempre qui e ora. Queste parole danno lidea di un effettivo osservare, riflettere, prendere nota di come stanno le cose.
Riflettere, quindi, significa usare la coscienza come uno specchio in maniera tale da cominciare a riconoscerla, a prendere atto della coscienza; perch in questo momento siamo tutti coscienti di ci che sorge e cessa: i pensieri, le emozioni, il piacere, il dolore, le impressioni sensoriali mediate da occhi, orecchie, naso, lingua, corpo. Allora potreste notare anche come, nel contesto di un ritiro di meditazione dove vi attenete agli otto precetti e dovete restare seduti a lungo e in silenzio, il dukkha della vostra vita, la sofferenza, sembri aumentare. Perch se foste a casa vostra probabilmente non lo fareste. Non ci sarebbe nulla a tenervi seduti unora di fila, tutti indolenziti! Non appena ci sentiamo irrequieti o proviamo disagio fisico, ci distraiamo. In genere, a casa abbiamo certe consuetudini per cui sappiamo dove sono le cose, dov il frigorifero, il televisore, e ci sono sempre incombenze e faccende da sbrigare, il telefono squilla...
Qualunque forma di restrizione sembra far crescere la sofferenza. Siamo abitudinari, per cui siamo assuefatti al nostro modo di fare, al nostro ambiente. In un ambiente diverso siamo costretti a porci dei limiti o adottare uno stile di vita a cui emotivamente non siamo avvezzi, e neppure fisicamente. Nei primi tre giorni vi consiglio di lasciare che il corpo si abitui al nuovo modo di vivere e di abbandonare le riserve sul piano mentale. Il contesto quotidiano cambiato: cos. Latmosfera, lambiente del centro di ritiro di Amaravati... si arriva a farci labitudine. Al punto che, dopo un ritiro di dieci giorni, il rientro a casa pu essere traumatico. tutto troppo rozzo. Ci si abitua alla disciplina, allordine e alla pace che ci sono qui.
Ho conosciuto persone che, tornando a Londra dopo un ritiro silenzioso di sei mesi, hanno sofferto moltissimo per il solo fatto di rientrare in citt, tornare alla famiglia e al caos della vita domestica. Si fa labitudine a tutto. Ho vissuto in Thailandia per molti anni e poi sono tornato negli Stati Uniti per un breve periodo. Ormai ero avvezzo alla Thailandia, alla vita monastica thailandese. Il mio apparato sensoriale, tutto si era adeguato al monastero della foresta, allaspetto dei thailandesi, ai loro lineamenti; perci ritrovandomi in un paese di nasi grossi e menti prominenti ho capito cosa provano i thailandesi!
Abbiamo una straordinaria capacit di adattamento, di abituarci e adeguarci alle situazioni. Latmosfera di un ritiro di meditazione, qui, cos; non vi sto dicendo com, fidatevi della vostra riflessione: " cos". Cominciate ad aprirvi alle cose come sono. Senza criticare o fare paragoni, ma solo diventando pi consapevoli e attenti al tipo di condizioni a cui siete soggetti in questi dieci giorni di ritiro e alleffetto che hanno sulla vostra mente. Non sono tali da creare assuefazione, indurre la calma con la deprivazione sensoriale... cos quando tornate a casa vi innervosite ancora di pi. Per qui c unatmosfera contenuta, misurata. Lassenza delle consuete distrazioni ci offre unoccasione per riflettere che potremmo non avere altrove. Prendete atto che una situazione speciale.
Queste sono condizioni speciali. Non assomiglia alla vita quotidiana, vero? Qui non si vive normalmente. Viviamo cos solo per rendere molto esplicito che si tratta di una situazione speciale, appositamente studiata per darvi, per quanto possibile, il tempo e loccasione di riflettere sugli eventi, su quello che vi succede. Noi lo vediamo in termini di Dhamma, piuttosto che in termini di me e mio. Ecco perch usiamo questo gergo buddhista. Come ho gi detto, il termine Dhamma non si pu tradurre adeguatamente. una parola profonda. un concetto che non esiste nella lingua inglese. Tuttal pi possiamo renderlo con la verit delle cose come sono. Rifugiarsi nella verit delle cose come sono suona un po strano, vero? Per lo meno a me, dire: "Mi rifugio nella verit delle cose come sono" suona strano. E poi voglio sapere: "Come sono? Dimmi come sono le cose!".
Ma non ve lo devo dire io! Potete vederlo da soli. Vi giro la domanda. Svegliatevi e osservate, invece di chiederlo a me. Daltro canto, potrebbe interessarvi il modo in cui dovrebbero essere. Forse siete stati in ritiro in altri posti o con altri insegnanti e avete un modello di come dovrebbe essere un ritiro di meditazione. Potreste venirmi a dire: "Ajahn Sumedho, credo che dovresti...". Forse il vostro modello di un ritiro di meditazione diverso dallesperienza che fate qui. Ma anche questo pu essere osservato, non dico che il nostro modello sia il migliore in assoluto o che non ci siano altre possibilit che valga la pena esplorare. Non ci interessa convincere o convertire. Quindi in un ritiro le circostanze fastidiose, irritanti o frustranti sono parte dellesperienza; ci risvegliamo alle cose come sono, invece di rifarci a un ideale di come dovrebbero essere.
Tornando al concetto di anatta o non s: personalmente, uno di quelli che ho trovato pi ostici. Il concetto di anicca mi sembrava chiarissimo. Se sostenete a lungo lattenzione, noterete che tutto cambia, non difficile riconoscerlo. Ma nel caso di anatta, mi pare che se c qualcosa di reale, qui, sono io! Io sono la persona che seduta qui e prova certe sensazioni, sono questo corpo. Debbo viverci insieme, perci deve essere mio; deve per forza succedere a me. Sembra un fatto scontato.
Potremmo concludere che il non s sia un assunto dottrinale e credere di doverci disfare del nostro s. Trasformarci in una non persona, una non personalit. Sul piano concettuale, che senso avrebbe? Riuscite a immaginare di non avere una personalit? Nulla di nulla... sarebbe come essere mezzi morti! Ogni opinione personale, ogni sentimento personale, sarebbe da respingere. Ma non si tratta di questo. Non lannientamento del s. vedere che il s a cui tendiamo ad aggrapparci una nostra creazione. Siamo gli artefici di noi stessi. Grazie alla consapevolezza cominciamo ad accorgercene. Comincio a notare come creo me stesso in quanto persona. Per semplice abitudine, perch non mi sveglio, perch sono prigioniero di pensieri ricorrenti, abitudini emotive e identit che non esamino mai, e tanto meno metto in discussione.
Con sati-sampajaa cominciamo a notare in cosa consista il senso del me e del mio. Siamo dotati di soggettivit, sentiamo di essere consapevoli. Tutti voi siete oggetti, in termini di momento presente, in termini di coscienza visiva; siete oggetti nella mia coscienza. Eppure, sul piano convenzionale non lo ammetteremmo. Crediamo di essere un gruppo di persone che partecipa a un ritiro di meditazione e tendiamo a vedere il tutto da un punto di vista molto convenzionale. Ma se includo anche questo nella consapevolezza, in realt voi siete nella mia coscienza. Il mio volto non posso vederlo, ma posso vedere il vostro! Sembra scontato, ma merita un approfondimento. Il mio occhio destro non pu vedere locchio sinistro, neppure se li incrocio! Per posso vedere i vostri occhi; ora sto riflettendo, osservando le cose come sono. Quanti di voi in questo momento si rendono conto di non poter vedere il proprio volto? Potreste mettervi di fronte a uno specchio: "Certo che lo vedo!". Ma solo un riflesso, vi pare? Non il vostro volto; un riflesso nello specchio. Sul piano convenzionale lo diamo per buono; quando vogliamo raderci usiamo uno specchio, e il riflesso ci serve a non mozzarci il naso o tagliarci. Sembra ovvio e scontato; eppure, quanti di voi hanno mai pensato in questi termini?
Di solito ci basiamo su un senso del s condizionato, su ci che si definisce sakkaya-ditthi, il concetto di personalit. Il termine pali sakkaya-ditthi, che si traduce con io, concetto di s o concetto di personalit, denota lidea di essere una persona separata che si identifica con il corpo, i pensieri e i ricordi, ossia unabitudine. Quindi possiamo chiederci: veramente me? Lo scopo non quello di confutarne lesistenza per attestarci sulla posizione opposta, ma svegliarci e osservare le cose come sono. L anatta una caratteristica dellesistenza. Non una qualit o una posizione dottrinaria, e non una credenza nichilistica.
In pi, il termine pali nibbana viene tradotto spesso con estinzione. La prima volta che incontrai la definizione nella letteratura theravada, che lobiettivo estinguersi, la lessi in chiave nichilistica: estinguere vuol dire annientare, vero? Allepoca, interpretavo estinzione come estinzione totale, oblio. Perch il condizionamento culturale della mente era quello, e il termine estinzione significa estinguere nel senso di disfarsi o annientare. Perci, se ci chiedono di spiegare cosa significa nibbana, rispondiamo: "Significa estinzione. La nostra pratica consiste principalmente nellestinguere, nel diventare estinti". Il che non suscita particolare entusiasmo.
Perci, cosa vuol dire nibbana in realt? Nei paesi buddhisti viene spesso elevato al rango di un conseguimento particolarmente elevato. In Thailandia se ne sente parlare come fosse unesperienza sublime. Nella nostra lingua divenuto un superlativo, una sottospecie di paradiso: "Ero al settimo cielo, ho raggiunto il nirvana". Il Buddha non parlava di uno stato elevato, ma di uno stato di risveglio. Lo stato risvegliato una condizione naturale dellessere che tutti possiamo riconoscere se prestiamo attenzione, se osserviamo le cose come sono, se le osserviamo in termini di Dhamma. Con le convenzioni religiose succede spesso; restano sul piano intellettuale, si congelano in una struttura dualistica. Quindi Dio e Satana sono inconciliabili. Ricordo che a un certo punto della mia educazione cristiana chiesi: "Ma allora anche Satana una specie di Dio?". Mia madre rispose di no. Per cui domandai: "Se Dio ha creato tutto, perch ha creato Satana?". Mia madre disse: "Satana ha disubbidito a Dio, ed finito allinferno!". La risposta non mi parve soddisfacente. Ecco cosa si fa con la mente, quando il pensiero resta bloccato su un percorso lineare.
Ecco perch continuo a insistere sulla natura del pensiero, sulla natura del pensare. una funzione che abbiamo, per cui un pensiero fa seguito allaltro. Penso: "Sono Ajahn Sumedho, un monaco buddhista", e poi mi faccio prendere la mano, raccontandovi tutto del mio passato e i miei progetti per il futuro... la mente vagabonda. Finch restiamo sul piano dei concetti e delle convenzioni, anche se funzionale, non possiamo liberarci, perch le convenzioni sono condizionate, sono create e dipendono dal linguaggio. Perci, invece di cercare la traduzione perfetta di sati-sampajaa, invece di passare la vita a tentare di definirla, usatela. qualcosa da usare qui e ora. Non qualcosa da ricercare altrove. Se la definite troppo, rischiate di farvi ossessionare dai concetti o dalle vostre definizioni, sforzandovi di diventare come credete che debba essere.
Quindi sati, la presenza mentale, non come un pensiero, o qualcosa che va prodotto o raggiunto esercitando il controllo sulle condizioni... si tratta semplicemente di usarla. Essere svegli, osservare, ascoltare; vigilanza, apertura. Quando mi metto in condizioni di osservare il processo del pensiero posso scegliere di pensare deliberatamente, posso pensare in modo molto positivo. In passato mi sono cimentato nella coltivazione dei pensieri positivi. Tutto amore e bene, benevolenza e compassione, guardo tutto dal lato positivo. Oppure, praticare la metta sul piano concettuale, senza lasciar emergere alla coscienza pensieri negativi. Insisto a concentrarmi su concetti positivi e di conseguenza mi sento benissimo... potere del pensiero positivo. Era un best-seller di Norman Vincent Peale, nellAmerica degli anni quaranta. Tutti compravano The Power of Positive Thinking.
Non c dubbio che pensare positivamente sia una buona idea. Non lo condanno e non lo metto in ridicolo. Se penso sempre in maniera molto positiva, la mia vita diventa pi felice e sar incline a un maggiore ottimismo. Mette di buon umore e porta alleuforia, allesaltazione. Ma il problema che per continuare a stare bene devi mantenere a tutti i costi un atteggiamento ottimista. Per sostenere lillusione di felicit che deriva dal pensare positivamente devi tenere a bada il dubbio, lo scetticismo e i concetti negativi. Non appena prendi coscienza di quel gesto di positivit compulsiva, smetti di prenderti in giro.
Ora applicate lo stesso principio ai pensieri negativi: "La vita non ha scopo. tutta una farsa, la gente marcia, non c una persona onesta a questo mondo. Le religioni sono tutte false; i politici sono corrotti... mia madre mi ha messo al mondo solo per egoismo e avidit, per sfogare la sua libidine...". E il risultato? Mi deprimo: "A che serve vivere? solo una perdita di tempo!". Ci si pu infognare nella depressione. Farlo intenzionalmente un modo per riflettere con consapevolezza sulla natura delle cose: si pu alimentare la positivit o la negativit. I pensieri positivi producono felicit, quelli negativi infelicit. Pensare in positivo il paradiso, pensare in negativo linferno.
Ci che consapevole del positivo e del negativo, la consapevolezza, non si schiera, non giudica. Si limita a notare le cose come sono, la reale natura dellesperienza che accade nel momento presente. Quindi, se la meditazione buddhista fosse solo unesperienza piacevole, certamente potrebbe avere i suoi vantaggi; ma quando le condizioni non si prestassero pi a rinforzare le opinioni ottimistiche, crollereste. Ci si pu infuriare, si pu finire allinferno, quando le condizioni e la gente che ci circonda non rinforzano la positivit. Osservando il fenomeno, si comincia a prendere atto che c solo questa funzione dualistica del pensiero, positivo o negativo che sia. una costruzione, una convenzione.
Perci, come usare il pensiero, invece di farsi coinvolgere dal processo discorsivo senza alcuna prospettiva sul pensiero? Il pensiero diventa abituale e facilmente ci si perde nei pensieri. Allora si pu pensare intenzionalmente, ascoltarsi mentre si pensa. Per farlo occorre sati-sampajaa. un abile mezzo per essere consapevoli del pensiero invece di restarne coinvolti. Di solito, se non siamo consapevoli diventiamo i nostri pensieri. Ecco perch consiglio di pensare intenzionalmente, per non mettersi a pensare ai pensieri. Abbiamo la tendenza a farci unidea del non pensare e a pensarci sopra, o a pensare ai pensieri, o a speculare sullanatta e sul nibbana, senza mai uscire dalla trappola dei nostri pensieri; finch non cominciamo a osservare il pensiero. Come si osserva il pensiero nella propria mente?
In questo momento noto che, per pensare intenzionalmente, formulo un proposito: "Adesso mi metto a pensare". Poi ascolto. possibile udire i propri pensieri; o almeno, io posso farlo. Mi ascolto parlare. Poi posso dire: "Sono un essere umano". Non un pensiero entusiasmante... non mi fa cadere in estasi e non mi deprime. unaffermazione neutra, diciamo cos, un dato di fatto. Ora stiamo osservando il pensiero dalla posizione della sati-paa, la coscienza risvegliata che osserva. Stiamo iniziando a riconoscere di non essere un pensiero, di non essere affatto ci che pensiamo. Gran parte del nostro pensiero consiste di abitudini acquisite, e il nostro senso del s, del valore personale, deriva dalle esperienze di vita, dalla cultura e dalla societ: dalla famiglia, dal sistema educativo, dal condizionamento etnico, dal condizionamento religioso.
Quando cominciai a studiare il buddhismo, tutto il mio modo di pensare era intriso di cristianesimo. Provengo da una famiglia di devoti cristiani, per cui faceva parte del pacchetto culturale ereditato da mia madre e mio padre e dalla societ in cui sono cresciuto. Non lho chiesto io. Concetti, valori, moralit, amore... era tutto cristiano. Perci quando iniziai a leggere le scritture buddhiste era naturale che fossi influenzato dal mio condizionamento, perch il processo discorsivo era fortemente legato ai valori cristiani, alle idee cristiane. Allepoca della scoperta del buddhismo avevo gi abbandonato il cristianesimo e non mi consideravo pi un cristiano. Non ho fatto del buddhismo una nuova versione del cristianesimo; cercavo solo di prendere atto di come la mia mente fosse condizionata e di come si tende a interpretare le parole.
Ho trovato molto utili gli insegnamenti in pali, perch una lingua diversa. Usare i termini pali ci aiuta a riflettere; per poter capire le parole bisogna tradurle. I termini sono utili, non per condizionarci a una forma mentis buddhista e diventare seguaci del buddhismo adottandone idee e concetti, ma per riflettere sulla natura delle cose. Allinizio, religione per me voleva dire sentirmi ispirato da sentimenti e termini entusiasmanti e sublimi come lamore incondizionato, lamore di Dio e il sacrificio; in contrasto con il Buddha, che parlava della nobile verit della sofferenza (dukkha) e non diceva nulla dellamore eterno. Quindi lo trovavo molto interessante, un approccio completamente nuovo. Le quattro nobili verit non sono una dottrina, non sono un dogma o una metafisica. Illustrano unesperienza comunissima, la sofferenza, che ciascuno di noi pu riconoscere senza la minima difficolt. La sottraggono al suo destino di brutta esperienza che va allontanata elevandola al rango di nobile verit (ariya-sacca).
Perch il Buddha premette nobile a sofferenza? O chiama la prima nobile verit la verit della sofferenza? Allora si comincia a riflettere: "Perch? Cosha di nobile, la sofferenza, per diventare articolo di fede?". Se comincio a credere alla sofferenza, mi deprimo: "Tutto sofferenza. Tutto impermanente. Il s non esiste, Dio non esiste, lanima non esiste. Tutto termina con lestinzione". Io lo trovo deprimente. cos pessimistico. Se vi fissate sulla parola diventate guastafeste, acidi e scontrosi, una compagnia poco piacevole.
La parola dukkha interessante perch, anche se la traduzione pi diffusa sofferenza, significa molto di pi. Il prefisso du, in pali, ha in genere valore negativo: dukkha significa intollerabile, insoddisfacente, o insoddisfazione. Denota un sentimento di incompletezza, il desiderio o la nostalgia di qualcosa, o un senso di mancanza o di carenza, come quando si pensa: "Non valgo abbastanza". Quando ci esaminiamo con occhio critico notiamo ogni sorta di mancanze e difetti, inadeguatezze e colpe. So come vorrei essere se fossi perfetto, il me stesso ideale, un uomo modello. Immagino che sarei onesto, coraggioso, nobile, gentile, sensibile, intelligente e forte. Poi mi guardo allo specchio e dico: "Non ce la far mai".
"Perch Dio non mi ha fatto migliore? Perch mi ha dato questo fardello da portare?". In passato mi indignavo molto: "Non giusto! Dio ha creato tutti, allora perch alcuni sono pi fortunati di altri? Perch ad alcuni toccano condizioni disagiate come la malattia, genitori cattivi e un ambiente di vita orrendo?". Non giusto, vero? Perci dukkha, in quanto nobile verit, ci fa riflettere: c la sensazione soggettiva che qualcosa manchi, sia inadeguato, insoddisfacente o incompleto. Pensando a me stesso come persona, non sono mai riuscito a convincermi di valere granch. Sono pi cosciente delle mie carenze, degli sbagli che faccio, dei fallimenti esistenziali. Sono pi cosciente di quel lato, che non della mia bont, dei miei grandi talenti o del buon kamma.
Quindi sul piano della personalit condizionata si tratta di una personalit giudicante che acutamente cosciente di quello che non va, che ossessionata dai difetti miei, vostri o del mondo in generale. Questo pu essere osservato, vero? Lauto-svalutazione e lautocritica sono una forma di sofferenza, perch c sempre un non dovrei. "Ho qualcosa che non va: a chi dare la colpa?". "Perch non sono luomo nobile che dovrei essere?". Ma intanto devo convivere con questuomo, che non posso fare a meno di criticare e a motivo del quale mi sento inferiore e in colpa. Quindi, questa una riflessione sulla prima nobile verit. Essere consapevoli di questo, del giudizio negativo nei propri confronti. "Sono un essere umano": pensare cos non suscita emozioni forti, mi pare, pi o meno neutro. Esploro questo, prima di pensare in termini di io. Quando si formula intenzionalmente una frase o una parola, c uno spazio in cui non c pensiero. Ma c consapevolezza. Consapevolezza del non pensiero.
Poi penso: "Io...", e c un altro spazio. Si tratta quindi di prestare attenzione, interessandosi non pi ai contenuti ma allo spazio attorno alloggetto. Ho scoperto che un buon modo di esplorare lesperienza di me stesso assumendo un atteggiamento pi o meno neutrale. "Sono un essere umano", unaffermazione neutra. Invece: "Io... sono... una... persona inadeguata... Sono pieno di difetti...", un po pi carico emotivamente. Fa un po male, vedersi come qualcuno che pieno di difetti. Ma a me interessano non le parole, ma lo spazio che c attorno. Quando comincio a pensare: "Sono pieno di difetti", la sensazione cambia decisamente rispetto a quando penso: "Sono un essere umano". Sto riflettendo su come le parole influenzano le nostre emozioni. Siamo creature sensibili; subiamo linfluenza del pensiero.
Quindi, "Sono un essere umano", neutrale. "Sono un uomo pieno di difetti" invece no, una critica. un commento negativo. Poi posso dire: "Sono unottima persona". Scopro che non facile pensarlo. Non sono abituato a pensarmi come una brava persona, suona un po insulso e disonesto. Sono cresciuto con lidea che lonest consista nel riconoscere tutte le proprie imperfezioni. Ma ci che ne consapevole, la consapevolezza dellio che sorge... quellio una creazione, vero? Ossia, la parola cambia a seconda delle lingue. In inglese, fortunatamente, solo una lettera, I [io], che in effetti alquanto simbolica. Lio nella coscienza, la consapevolezza di io: quella consapevolezza non io, vero? Non ha parole per dirlo, perch reale. Io o me un artificio, unabitudine, frutto del linguaggio.
Trovo che io non ha il forte sapore egocentrico di me o mio, come nelle frasi: "Questo mio! roba mia! E a me niente?". Ma io pu anche essere: "Te lo dico io...", "Se vuoi sapere come la penso io...", e : "Io, francamente..."; in questi casi lio ingigantisce. Il semplice tono della voce pone laccento sullidea: "Sono una persona e ho una certa opinione". Sto parlando di come lindagine ci aiuti a prenderne coscienza. Basta semplicemente osservare e chiedersi: " io, me o mio?". Queste parole le creo, sono convenzioni. Ma non creo ci che consapevole delle parole. Non creo la presenza mentale. Semplicemente la applico. Quindi la presenza mentale non io, me o mia, anatta, impersonale. Non un uomo, un essere umano, una donna o un monaco buddhista. Riflettendo cos, cominciate a dare valore alla capacit di essere consapevoli. molto importante riconoscere la consapevolezza e darle il giusto valore.
La consapevolezza la via duscita dalla sofferenza, laccesso al senza morte. E non una creazione, n una qualit personale. Praticando, investigando, cominciate a prendere le distanze dal linguaggio e dal pensiero notandoli come oggetti mentali... lo stesso per le emozioni che emergono, ad esempio: "E a me niente?". O lassertivit: " mio diritto! Devo farmi valere! Non mi faccio mettere i piedi in testa da nessuno!" Se il mio rifugio la consapevolezza, quel sentirmi una persona un oggetto nella coscienza. Diventa cosciente; sorge e cessa. Quindi il s o sakkaya-ditthi un artificio; artificiale e creato. Siamo noi a crearlo; siamo gli artefici di noi stessi in quanto persona, personalit.
Quindi si tratta non di disfarsi della personalit, ma di riconoscerne i limiti, di affrancarsene; perch, a ben vedere, la personalit ci limita molto. Abbiamo una sfilza di opinioni su noi stessi, le nostre capacit, il nostro valore e via dicendo. Perci tendiamo a cadere vittime di paure nevrotiche, ansie e preoccupazioni circa la nostra identit. In particolare nel ceto medio la nevrosi abbonda, perch abbiamo tanto tempo per pensare a noi stessi. La societ ci dice che abbiamo certi diritti, che dovremmo fare certe cose, che dovremmo credere a certi ideali... di conseguenza incameriamo tutti quei concetti. Tendiamo a formulare giudizi, giudizi di valore su noi stessi, sugli altri e sul mondo. Quindi, considerate questo ritiro come unoccasione per smettere di crearvi unidentit precisa. Esplorate il senso del s... non per disfarvene, per cancellarlo... ma per riconoscere che non siete ci che pensate. Per me un sollievo non credere ai miei pensieri.
I pensieri continuano ad andare e venire. A volte sono utili, a volte sono solo abitudini. Sorgono determinate condizioni che ti rendono felice, e hai limpressione che tutto vada per il meglio. Poi le cose vanno a rotoli, qualcuno abbandona la veste monastica, una cosa tira laltra. La gente ti elogia e ti compiaci, ti biasima e ti deprimi... sul piano personale. Ma la consapevolezza non resta coinvolta negli alti e bassi della lode e del biasimo, della felicit e della sofferenza. La consapevolezza un rifugio che pu riconoscere queste qualit in termini di Dhamma: tutte le condizioni sono impermanenti e non s. un invito a riflettere sullesperienza della sakkaya-ditthi, che io rendo con concetto di personalit. In questo periodo avete modo di cimentarvi con l"Io sono". Potete essere tutto quello che volete, ma ascoltate, non credeteci... "Sono Dio!"; "Sono una nullit, non valgo niente, sono solo una formica in un formicaio. Sono uno zero, sono solo un numero, una rotella dellingranaggio...", sempre una creazione, vero?
Posso assemblarmi come Dio unico onnipotente o un povero derelitto. Ma sono solo costruzioni, e la consapevolezza non crede a nessuna di quelle condizioni. Le vede, ne prende atto, ma non ci si attacca. un modo che ho scoperto per chiarirmi le idee. Cos la pura consapevolezza, e cos la personalit? importante che capiate la differenza, che abbiate fiducia, non in un dogma, ma nella chiarezza. Prendete atto che la consapevolezza qui e ora. "Io sono... Ajahn Sumedho" viene e va. "Sono buono, sono cattivo"... I ricordi vanno e vengono, ma la consapevolezza si autosostiene, non una creazione ed sempre affidabile. sempre qui e ora. Vederlo chiaramente vi libera dallattaccamento alla sakkaya-ditthi, allio, senza bisogno di rifiutarlo. Do ancora limpressione di essere una personalit, vero? E voi mi vedete come Ajahn Sumedho. Quindi non divento una specie di zombi o un tipo anonimo e incolore. Ma so riconoscere una personalit, invece di identificarmici e farmi trascinare dalle sue abitudini.
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